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Il mostruoso come esorcismo. Il Godzilla giapponese e altri kaijū

Prosegue la rubrica di Ludovico Cantisani dedicata all’antropologia dell’apocalittica cinematografica.



Il principio fondamentale, sempre misconosciuto, è che il doppio e il mostro sono una cosa sola. Il mito, naturalmente, mette in rilievo uno dei due poli, generalmente il mostruoso, per dissimulare l’altro. Non c’è mostro che non tenda a sdoppiarsi, non c’è doppio che non celi una segreta mostruosità. È al doppio che si deve dare la precedenza, senza tuttavia eliminare il mostro; nello sdoppiamento del mostro quella che affiora è la struttura vera dell’esperienza.

René Girard, La violenza e il sacro, cap. VI


Nessun film come Sacrificio di Tarkovskij rappresenta con tanta maestria il meccanismo del cristologico, neanche i film sulla passione di Cristo. Esiste però un capro espiatorio diverso dal Cristo e più vicino al dionisiaco, il capro espiatorio rappresentato dal mostruoso. Il mostruoso racchiude in sé tutta quella “indifferenziazione violenta”, quella perdita di individualità tra i singoli membri di una comunità causa della crisi che, nella lettura dell’antropologo francese René Girard, il capro espiatorio è chiamato ad espellere risolvendo una situazione di crisi terminale. Quale figura meglio di un mostro potrebbe svolgere il ruolo del capro espiatorio? Nel corso dei due articoli precedenti sul cinema apocalittico e post-apocalittico, abbiamo visto figure para-cristologiche emergere in situazioni di grave crisi per il mondo intero (un’epidemia zombie in Io sono leggenda, una guerra nucleare in Sacrificio, una devastante invasione aliena nella saga di Alien) per sussumerla in sé, nella propria vita, e risolverla con il proprio sacrificio.

Davanti al mostruoso cinematografico ci ritroviamo però in una situazione in parte diversa. Da un lato il meccanismo del capro espiatorio si ripete, sia pure senza il consenso della vittima: il cinema americano pullula di film in cui il mondo è minacciato dall’improvvisa comparsa di un mostro e gli eroi di turno uccidono o scacciano questo nemico salvando l’intera specie umana. Se l’uccisione del mostro avviene a costo della vita del protagonista – come in Deep Impact e Armageddon, film in cui il mostruoso è rappresentato da un meteorite – ci troviamo in una particolare sovrapposizione tra un capro espiatorio affine al cristologico e un capro espiatorio mostruoso, caso particolare del modello generale già analizzato. Potrebbe essere più interessante riflettere, nell’ottica di una reciproca influenza fra storia e cinema, su come l’elemento mostruoso – nella sua comparsa e, generalmente, nella sua eliminazione – possa fungere da esorcismo di alcune paure collettive, spesso nazionali. Esempio perfetto è Godzilla (Gojira), nato nel 1954 dalla mente di Toho Tomoyuki Tanaka e Ishirō Honda.

Godzilla, Ishirō Honda, 1954

Il primo Godzilla, diretto Honda, venne realizzato nel 1954 in Giappone e riscosse un inaspettato successo in tutto il mondo. Da allora sono stati realizzati oltre trenta Godzilla in Giappone e tre remake statunitensi, il primo dei quali diretto da Roland Emmerich, già discusso nel primo articolo di questa serie. Godzilla è un incrocio fra un dinosauro e una lucertola, un mostro preistorico di gigantesche dimensioni rimasto per millenni in ibernazione e improvvisamente risvegliato dai test nucleari effettuati negli atolli del Pacifico, test che lo hanno caricato radioattivamente permettendogli di emettere un raggio atomico dalla bocca. Se il successo internazionale riscosso da Godzilla negli anni ’50-’60 si può facilmente collegare al clima di generale paura della bomba atomica che si era diffuso in tutto il mondo soprattutto quando anche l’Unione Sovietica aveva iniziato a produrre il suo arsenale nucleare, è in modo particolare al Giappone che dobbiamo rivolgere la nostra attenzione per capire l’essenza ultima di Godzilla e degli altri kaijū (“mostri”) con cui si è scontrato nella sua interminabile filmografia. Negli anni ’50 il Giappone era un paese distrutto da una guerra che lui stesso aveva provocato. E non si trattava di una semplice sconfitta, era una disfatta che lasciava il paese in ginocchio sul piano psicologico ancor più che sul piano economico. Due città interamente cancellate nell’arco di tre giorni. I pochi sopravvissuti ai due bombardamenti ricoperti di piaghe e afflitti da mutazionI genetiche. Come condizione di resa gli USA avevano forzatamente iniziato il processo di democratizzazione del paese. L’Imperatore invincibile aveva abdicato in diretta televisiva e successivamente, per ordine degli Stati Uniti d’America, aveva formalmente rinunciato alla sua natura divina, mentre gli USA e l’Unione Sovietica si sfidavano fra gli atolli del Pacifico a chi faceva il test nucleare più distruttivo. Paradossalmente, per un complesso di circostanze che solo durante la guerra fredda si poteva venire a creare, il Giappone dovette continuare a fare affari con gli Stati Uniti, essendo l’alternativa dell’URSS ancora meno praticabile. La fine della Seconda Guerra Mondiale, per una nazione come il Giappone con un codice tradizionale di valori tanto rigido ed “eroico”, aveva comportato, in una parola, uno shock culturale immenso. È in questo complesso di disfatte e umiliazioni che il Sol Levante iniziò a sognare mostri.

Godzilla, Ishirō Honda, 1954

Che cosa rappresentava dunque Gojira, a un livello che definire inconscio sarebbe eccessivo per una verità tanto accessibile agli spettatori giapponesi del tempo? Il lucertolone era, innanzitutto, la ribellione della natura contro la profanazione operata dall’uomo attraverso l’atomica. Era anche la metafora del bombardamento di Hiroshima, tanto più che il film del 1954 e diversi altri dei suoi sequel metteranno in scena la distruzione di Tokyo ad opera di Godzilla o di qualche altro suo gregario; per rappresentare senza costi eccessivi le scene di distruzione di massa, la produzione del film aveva addirittura utilizzato materiale di repertorio girato durante la guerra. Un ulteriore piano di lettura potrà mostrare come Godzilla incarni, oltre allo shock culturale provocato dal bombardamento di Hiroshima e Nagasaki, anche e – forse soprattutto – l’apprensione suscitata dai test nucleari che gli Stati Uniti, l’Unione Sovietica e la Francia conducevano fra gli atolli nel Pacifico. La scoperta dell’esistenza di Godzilla è graduale: si verificano inspiegabili naufragi di navi, solo in un secondo momento il mostro fa la sua comparsa presso l’isola Odo, dove si ricordano antiche leggende su mostri provenienti dal mare. Una scena in cui alcuni pescatori, sottoposti alle radiazioni di Godzilla, muoiono in preda ad atroci dolori richiama un evento realmente accaduto pochi mesi prima dell’uscita del film: un peschereccio era passato troppo vicino alla sede di un test atomico statunitense; anche le particolari fattezze della pelle del dinosauro erano ispirate alle mutazioni subite da alcuni superstiti ai due bombardamenti atomici dell’agosto ‘45. La vivida impressione suscitata da questi eventi è organicamente fluita nella creazione del personaggio Godzilla, al quale furono poi aggiunti ulteriori significati, come il monito per l’oblio in cui stava cadendo il passato imperiale del Giappone. Una simile pregnanza simbolica, immediatamente accessibile per uno spettatore nipponico di quel periodo e tuttora evidente, ha fatto la fortuna del franchise e ha fatto meritare al suo protagonista l’appellativo di “Re dei mostri”.

King Kong vs. Godzilla, Ishirō Honda, 1962

Nel 1962 arrivò uno dei sequel giapponesi più noti del film del ’54, King Kong vs. Godzilla o, come nell’originale traduzione italiana, Il trionfo di King Kong. A differenza di Mothra, di King Gidorah e degli altri kaijū di cui l’universo di Godzilla si andava popolando già nei suoi primi anni di vita, la scimmia gigante King Kong era un mostro americano, apparso per la prima volta in un film del 1933 diretto da Merian C. Cooper e Ernst B. Schoedsack e destinato a sua volta ad avere, oltre a un immediato sequel nello stesso 1933, diversi altri remake e plagi nei decenni a venire. Anche se già negli anni ’30 erano stati realizzati un paio di remake nipponici di King Kong, poi perduti proprio durante la guerra, King Kong vs. Godzilla alza ulteriormente la posta in gioco sul piano simbolico: nello scontro fra King Kong e Godzilla si consuma la lotta fra un mostro americano e un mostro nipponico, o, in una visione per certi versi opposta, fra un mostro risvegliato e rafforzato dall’energia nucleare e un gigantesco scimmione che incarna la natura nella sua forza più pura. A tal riguardo è piuttosto interessante segnalare la notizia (falsa, ma tuttora piuttosto diffusa) secondo cui era Godzilla a trionfare nel finale originale del film, che poi i distributori americani avrebbero cambiato dando gli onori della vittoria a Kong. Per quanto Godzilla incarnasse un “male”, gli spettatori giapponesi vedevano in lui un simbolo della propria nazione, e, ancora oggi, accanto a Mazinga, Goldrake e agli altri “robottoni” degli anni ’70, è uno dei principali simboli della cultura popolare giapponese nel mondo.

Un film per certi versi analogo a Godzilla è The Host del 2006, diretto dal sudcoreano Bong Joon-ho recentemente consacrato a livello internazionale dal successo di Parasite. The Host raccontava dell’improvvisa fuoriuscita di un mostro anfibio dalle rive del fiume Han, e della lotta di una famiglia del ceto basso per salvare la figlia più piccola, catturata dal mostro e portata nella complessa rete di fognature della città. Anche qui il mostro si era generato per colpa degli Stati Uniti: alcuni anni prima un arrogante anatomo-patologo americano aveva obbligato il suo assistente coreano a gettare nel fiume Han duecento bottiglie di formaldeide; e anche per The Host l’ispirazione iniziale era arrivata da due episodi realmente accaduti, un effettivo scarico abusivo di formaldeide per ordine di un militare statunitense e il ritrovamento di un pesce deforme nel fiume Han. Tuttavia, come da prassi nei film di Joon-ho, da Memorie di un assassino a Parasite passando per Snowpiercer, il film si distingue dai tradizionali monster movies per l’attenzione ai meccanismi sociali. Oltre alla scelta dei protagonisti di fascia sociale popolare, il film presenta una sotto trama in cui il governo sudcoreano, su ordine degli Stati Uniti, finge che il mostro sia portatore di un virus per distrarre l’attenzione dalla sua genesi. È in questo subplot che si colloca una scena, diventata virale nei mesi scorsi dopo lo scoppio dell’epidemia del Coronavirus, in cui un uomo affetto da colpi di tosse sputa in una pozzanghera sotto gli occhi preoccupati dei passanti in attesa del semaforo verde, pochi istanti prima che una macchina, passando sulla pozzanghera, schizzi l’acqua “infetta” su tutti loro.

The Host, Bong Joon-ho, 2006

Con le dovute eccezioni, il cinema dei mostri propriamente detto ha meno presa sul pubblico contemporaneo; appartiene in qualche modo a un immaginario tipicamente infantile, esagerato, irrealistico; ma non è tanto questo il discrimine, se consideriamo l’immenso successo riscosso dal genere supereroistico nel corso degli ultimi quindici anni; forse i mostri non hanno più la forza di un tempo per catalizzare dentro di sé le paure del mondo attuale, anche prima del Coronavirus. Ciò non ha impedito a Peter Jackson di realizzare nel 2005 un ottimo remake di King Kong e all’Universal Pictures di concepire la saga del MonsterVerse, composta da Godzilla (2014), Kong: Skull Island (2017), Godzilla: King of Monsters (2019) e Godzilla vs. King Kong; l’uscita di quest’ultimo sarebbe prevista per il novembre di questo anno. Permettiamoci di concentrare brevemente lo sguardo su questo ultimo cinema di mostri. Kong: Skull Island, per dare una maggiore storicità e consistenza alla storia e altresì per renderla più vicina ai giorni nostri rispetto alla Grande Depressione che faceva da sfondo al film del ’33 e al remake del 2005, colloca le sue vicende nella cornice della Guerra del Vietnam; particolare che – oltre a rappresentare l’ultima memoria cinematografica del conflitto in Vietnam, realizzata, peraltro, con l’appoggio del governo vietnamita – non ha una particolare importanza ai fini del nostro discorso.

Godzilla, Gareth Edwards, 2014

Più significativi sono i due nuovi episodi americani, soprattutto quello del 2014 diretto dal talentuoso Gareth Edwards. Rispetto al periodo in cui vennero realizzati i primi Godzilla, la bomba atomica è ormai scomparsa dal nostro orizzonte culturale, se non quando emerge come – vago – spauracchio in occasione delle intermittenti tensioni Usa-Iran; per non far storcere il naso ai fan di vecchia data il racconto delle origini del mostro non viene modificato, ma i creatori della nuova saga hanno avvertito chiaramente l’esigenza di offrire al plot una dimensione aggiornata: si appoggiano da un lato al ricordo degli incidenti di Chernobyl e Fukushima, dall’altro alla crescente public awareness sul tema del riscaldamento globale. Godzilla è un personaggio positivo, che nel primo titolo si scontra contro due “M.U.T.O.” e nel secondo contro il drago alato King Ghidorah per riequilibrare l’ordine della natura messo a repentaglio dall’azione umana; il mostro riemerge da un sonno millenario dopo gli esperimenti nel pacifico negli anni ’50, ma il primo dei due film si apre con un incidente in una centrale nucleare giapponese causato dal risveglio di uno dei suoi nemici; frangente in cui perde la vita la madre del protagonista. Il regista Gareth Edwards ha esplicitamente affermato di aver voluto affrontare le questioni sollevate dal disastro di Fukushima. Nel sequel Godzilla: King of Monsters – con uno spirito per certi versi contrario o comunque più problematizzante rispetto all’ecologismo trionfante di cui si nutriva il primo titolo – trova addirittura spazio una associazione di eco-terroristi che incautamente cerca di risvegliare i mostri del sottosuolo, a cui Godzilla, con l’aiuto della farfalla gigante Mothra, faticosamente tiene testa.

Godzilla: King of the Monsters, Michael Dougherty, 2018

Se i mostri (e il cinema apocalittico alla Geostorm o alla The Day After Tomorrow) sono oggi chiamati a incarnare le nostre paure in materia ambientale, non è difficile individuare altri personaggi capaci di esorcizzare nuove ansie del mondo contemporaneo: i supereroi lottano primariamente contro il terrorismo (nel primo Iron Man il protagonista Tony Stark veniva rapito da terroristi afghani e durante la sua prigionia costruiva la sua iconica armatura), le minacce informatiche, le cospirazioni all’interno del governo stesso, anche quando la trama, per così dire “esplicita”, porta la lotta nello spazio esterno. In un modo o nell’altro il cinema rispecchia i nostri tempi e ne esorcizza le angosce, e presto o tardi le conseguenze psicologiche del Coronavirus creeranno nuovi capitoli della fastascienza, così come il cinema supereroistico e altre pellicole che abbiamo precedentemente analizzato si sono rivelati metafore dell’11 settembre. Il valore dei film non sta evidentemente nella metafora in sé, ma nel meccanismo esorcistico che essi creano (o che li crea): la crisi viene fittiziamente portata fino al volume critico e fatta esplodere, ma grazie al team degli Avengers e grazie alla fondazione Monarch che studia e cerca di mantenere il controllo su Godzilla e gli altri mostri, viene superata. Sia pure nella loro ingenuità, i blockbuster si caricano di nuovi significati, che meritano di essere esplorati con attenzione.

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