La langue ne sera jamais un langage. Intervista a Fabrice Aragno sulla collaborazione con Jean-Luc Godard
Fabrice Aragno (Neuchâtel, 1970) è un filmmaker svizzero. Come regista ha diretto diversi cortometraggi, film e documentari, fra cui Dimanche, selezionato al Festival di Cannes nel 1999, e Le Jeu. È stato il direttore della fotografia delle ultime quattro opere di Jean-Luc Godard, Film Socialisme (2010), il segmento Les Trois désastres del film ad episodi 3X3D (2013), Adieu au langage (2014) e Le livre d’image (2018); ha inoltre diretto per la Radio Televisione Svizzera un documentario su Godard intitolato Quod erat demonstrandum. Accanto a Godard ha collaborato come produttore ed editore anche con il drammaturgo, regista e performer Pippo Delbono sui suoi art movies Amore carne, Sangue e Vangelo.
Quale è stata la tua formazione come filmmaker? A quali progetti ha partecipato prima di conoscere Godard?
Inizialmente ho fatto studi di ingegneria che però non ho completato, mi sono formato in Architettura ma poi sono passato prima a lavorare nel mondo del teatro, fra il teatro delle marionette e il cosiddetto teatro visivo, poi ho iniziato a studiare cinema. Ho frequentato una scuola di cinema a Losanna dove mi sono diplomato nel ’98 con un film intitolato Dimanche. Dimanche dapprima non venne molto apprezzato dalla giuria della scuola ma dopo essere passato per due o tre festival di categoria media è stato invitato a partecipare a Cannes per la sezione Cinéfondation, quella destinata a proiettare lavori provenienti da scuole di cinema di tutto il mondo. Lo dico perché la parabola di questo mio primo lavoro ricorda un po’ quella che hanno avuto negli anni successivi i film di Godard a cui ho preso parte: alla mia scuola non era piaciuto, si lamentavano del fatto che non ci fosse una storia, che mancassero i dialoghi, ma poi il mio corto ha finito per fare un lungo giro di festival in tutto il mondo ed è stato il primo film svizzero ad essere selezionato per la Cinéfondation. Anche agli ultimi film di Godard è successo un po’ così. Qui in Svizzera non vengono capiti ma pur essendo dei piccoli prodotti quasi artigianali poi fanno il giro del mondo. Uno dei miei primi lavori cinematografici fu quello di production manager per Brucio nel vento, un film di Silvio Soldini girato prevalentemente in Svizzera. Avevo contribuito alla preparazione e alla ricerca delle location, ma ero rimasto sul set impegnandomi molto anche come scenografo. Ruth Waldburger, la produttrice svizzera del film, lo notò e siccome era la stessa produttrice dei film di Godard mi offrì di lavorare per lui.
Da prima ancora della tua nascita Jean-Luc Godard era già uno dei registi più celebrati e influenti del mondo. Allontanandosi sempre di più dallo stile dei suoi primi film senza mai perderne le tematiche di fondo, nel passare dei decenni Godard ha perseguito una ricerca al tempo stesso teorica e pratica nel linguaggio cinematografico, approdando ad opere decisamente sperimentali e ancora più innovative dei suoi esordi. Quando hai conosciuto di persona Godard? Come si è sviluppata la vostra collaborazione?
Ho conosciuto Godard nel 2002. Prima non ero particolarmente appassionato al suo cinema, avevo visto i suoi primi film a scuola con dei professori che avevano un approccio molto teorico, universitario, con ragionamenti complicati e verbosi: qui Godard voleva rappresentare questo, qui intendeva quest’altra cosa, se non leggi le opere di questo filosofo non capirai mai i suoi film… Poi andavo a vederli e non ci trovavo nulla di tutto questo, e pensavo di essere in difetto. Non avevo insomma la “godardmania”, sapevo che lui abitava in un paesino non lontano da noi ma mai mi era venuta la curiosità di provare a conoscerlo. C’era inoltre un professore di Suono, un grande ingegnere del suono che si chiama Luc Yersin che aveva lavorato ad alcuni film di Godard e che ci raccontava quanto fosse complicato lavorare con lui, descrivendolo come una persona molto precisa a livello tecnico, che faceva spesso e volentieri richieste impossibili. Si era quindi formato dentro di me un personaggio virtuale di un Godard iroso, complicato e difficile, la classica persona che ti guarda dall’alto in basso. Quando poi Ruth Waldburger mi ha proposto di lavorare con lui ovviamente mi sono detto “perché no?” e ho subito accettato. Quando la notizia si sparse un po’ tutti si premurarono di raccontarmi aneddoti di set in cui Godard litigava con i tecnici. Prima di incontrarlo di persona ho provato a vedere e a capire i suoi ultimi film perché ero sicuro che mi avrebbe fatto un esame. Ricordo in particolare di aver preso dalla biblioteca il VHS di Eloge de l’amour ma che non ci capivo niente, guardai il film una decina di volte ma inutilmente. Quando alla fine sono andato da lui e l’ho visto mi sono accorto che Godard non era per niente il personaggio che gli altri descrivevano, era semplicemente un omino gentile, che ti stringe la mano e dice “Bonjour”. Ci incontrammo una domenica mattina nel suo ufficio, in questo piccolo paesino svizzero molto tipico, quasi banale, che si chiama Rolle, e tutto ciò che Godard faceva mi dava un’impressione molto “umana”, come dire, semplicemente mi spiegò le esigenze del film – che sarebbe poi diventato Notre musique – e mi chiese se volevo parteciparvi.
Anche lì, come nel film di Soldini, sono stato innanzitutto un location manager, ma a modo mio: andando a fare i sopralluoghi non mi limitavo a fare fotografie dei posti ma accanto a queste immagini fisse realizzavo anche dei video, in modo tale da unire video e foto e dare una visione panoramica dello spazio. Godard era interessato a questo approccio e si servì di me in particolare per la sequenza nella spiaggia svizzera alla fine di Notre musique, per la quale fui incaricato anche di trovare delle comparse. Con Godard c’è sempre tempo, non mette mai fretta, per cui ho scelto i giovani che dovevano fare da figuranti nella scena con grande attenzione, mi sono preso il tempo di fare delle prove con loro, di capire le particolarità fisiche e le abilità sportive di ognuno. Questi provini li filmai e li mostrai a Jean-Luc che ne fu molto soddisfatto, e infatti nel film sono rimaste queste cose: nel montaggio definitivo si vedono questi ragazzi fare vari sport in uno scenario paradisiaco. Fui incaricato anche di trovare i costumi per i soldati americani e sono finito in una delle inquadrature del film perché si scoprì che una delle comparse non entrava nel costume che avevamo trovato, che invece calzava bene a me. Tutto molto semplice e spontaneo, insomma: quello che ho sentito di Godard in questo primo film fatto assieme a lui era che si trattava di un regista che decisamente vede le cose dall’interno, uno sguardo molto essenziale. Rispetto a Brucio nel vento c’era una grande differenza, prima di tutto a livello di troupe: il film di Soldini contava cinquanta, sessanta persone, per Notre musique eravamo sei o sette, due erano addetti all’immagine, due al suono, io e altri due ragazzi ci occupavamo della produzione e dell’organizzazione e poi c’erano Jean-Luc e Anne Marie Néville. Anne Marie è una presenza costante nella vita professionale di Godard e non solo; ne Le livre d’image ci saranno suoi contributi vocali. Da quel momento ho finalmente “capito” i film di Godard, perché non erano più i film di Godard, erano i film di Jean-Luc, e lavorando con Jean-Luc ho capito i film con le mie stesse mani, li ho com-presi quasi in senso etimologico. A partire da Notre musique si è andata formando una piccola famiglia, composta da Jean-Luc, Anne Marie, Jean-Paul Battaggia ed io, una piccola galaxie se così possiamo dire. Con Godard sul set il rapporto è paritario, siamo sullo stesso livello, lui non guarda dall’alto in basso me né io guardo dal basso verso l’alto lui, semplicemente lavoriamo.
Film Socialisme è stato il tuo primo film con Godard come “cinematographer”, nonché il primo film di Godard ad essere girato e distribuito interamente in formato digitale, in HD. Come sei passato da production manager a operatore? Da cosa è nata questa nuova sperimentazione di Godard?
Ho sempre un po’ giocato con la tecnica, non sono per niente “un tecnico” ma non ho paura della tecnica, nel senso che ci metto le mani normalmente, se ti impegni puoi capire più o meno tutto. Quando si è messo al lavoro su Film Socialisme Godard mi ha richiamato in particolare per una sequenza che ora non fa parte del montaggio finale; era ambientata in una villa bosniaca ma siccome lui non voleva viaggiare dovevo trovare una location “casa sfarzosa simil-bosniaca” nei pressi di Rolle. Siccome il film tardava un po’ ad iniziare per ragioni produttive finimmo per incontrarci spesso nel suo ufficio. Era il 2008, Godard aveva comprato una piccolissima camera HD in un negozio locale. Io l’HD lo conoscevo già attraverso altri progetti a cui avevo preso parte e Godard mi chiese se potevo usare io la camera, lui non aveva le idee chiare su come usarla e trovava i tasti troppo piccoli, per cui ho iniziato a testare quell’apparecchio. Ingenuamente, in un primo momento, ho impostato quegli esperimenti come se fossi un direttore della fotografia, ho fatto dei provini per vedere i contrasti, la sensibilità alla luce, il livello del nero, del gamma, ma quella videocamerina non era assolutamente interessante sotto questo profilo, i colori erano pallidi, non aveva affatto la stessa qualità di altre macchine da presa. Tuttavia la videocamera ti permetteva di lavorare su due o tre setting un po’ banali – cambiare la velocità di ripresa, ad esempio – e allora mi sono messo a fare delle prove in questo senso, e lì la situazione è cambiata, perché andando direttamente a lavorare sui difetti della camera, girando con un’esposizione inferiore del dovuto e mettendo la velocità di ripresa al massimo oppure rallentandola si ottenevano degli effetti più interessanti, certo molto lontani dall’alta definizione ma più originali. Ho fatto delle prove così e le ho mostrate dal pc a Godard, e gli ho detto una frase del tipo: «La camera non ha nessuna qualità particolare, sono più interessanti i suoi difetti», e la cosa gli è piaciuta abbastanza. In tutti gli incontri lui e Jean Paul, che faceva un po’ da direttore della produzione/aiuto regista, si chiedevano se fare il film in 35mm o in video HD, lui ci stava riflettendo e dopo aver visto questi provini ha optato per l’HD, chiedendomi se volevo essere io l’operatore, cosa che ovviamente ho accettato. In quel periodo lui aveva ancora un collaboratore che lo aiutava per le riprese in video, ad esempio il ciclo delle Histories du cinéma lo aveva fatto tutto in video con lui in uno studio di montaggio molto professionale. È stato lui a vendergli una videocamera professionale in HD abbastanza cara. Ho iniziato con questa camera e abbiamo girato così la seconda parte del film, quella nel garage della famiglia Martin. Le riprese iniziarono nel 2009 e Film Socialisme fu il primo lungometraggio girato con Digital single-lens reflex (DSLR), ovvero con una fotocamera reflex che impiegava un sensore al posto della pellicola convenzionale.
In una tua precedente intervista ho letto che Godard non era presente durante le riprese del film, almeno per la doppia sezione che segue l’itinerario della crociera, con cui si apre e si chiude il film. Come vi siete coordinati per girare il tipo di film che lui cercava? Come funziona questa forma innovativa di collaborazione in cui il regista è di fatto assente dal set almeno per una parte delle riprese, e crea il film a partire da quanto girato autonomamente dal cinematographer?
Film Socialisme è sostanzialmente un road movie, anzi un Mediterranean movie. Dovevamo trovare una crociera che facesse due volte il giro del Mediterraneo passando per l’Italia, per la Grecia e per l’Egitto, una prima volta a gennaio e una seconda volta a marzo-aprile: nel primo giro era previsto che noi facessimo dei sopralluoghi e girassimo le inquadrature senza gli attori, nel secondo viaggio avremmo avuto con noi anche gli attori. Poco prima che il film iniziasse avevo comprato a mie spese una Canon 5D mark2, un apparecchio molto particolare perché sostanzialmente ti permette di girare dei video con degli obiettivi da fotografia, un ibrido che mi interessava molto. Avevo fatto qualche prova e l’avevo mostrata a Jean-Luc, e prima di andare sulla nave da crociera lui mi ha detto che forse la Sony che avevamo usato per la parte nel garage era un po’ “triste” a livello di colore. La mia Canon, avendo una profondità di campo e un contrasto inferiori dava un’impressione più viva, meno acquerellata, più contrastata, quasi come un disegno a carbone o un quadro dei Fauves, e allora abbiamo optato per usare quella. È vero che Godard non era presente sul set, ma solo per il primo viaggio: tre giorni prima della partenza abbiamo avuto un incontro nel suo ufficio, eravamo tutti pronti a partire ma lui ci ha detto di essere un po’ stanco, e che siccome doveva lavorare ancora alla sceneggiatura preferiva che andassimo solo noi a fare il sopralluogo e le prime riprese. Per quanto riguarda quello che dovevamo girare lui è stato molto chiaro: «Se io vi dico quello di cui ho bisogno provereste a fare quello che voi pensate che io voglia, e sarebbe una merda; dovete girare alla vostra maniera, secondo la vostra sensibilità, o altrimenti non fare niente e limitarvi al sopralluogo tecnico: io non vi dico quello di cui ho bisogno».
Qualche settimana dopo è venuto con noi per la parte “recitata”. È stato però bellissimo per me stare da solo sulla nave per dodici giorni con questa Canon accessoriata con obiettivi Leika, a fare cinema totalmente come io volevo, filmando ogni giorno per dodici giorni un’umanità orribile e un mare bellissimo. Dire che in questa occasione Godard mi ha dato molta libertà credo sia per certi versi sbagliato, perché lui in realtà non me l’ha mai tolta, e lui fa lo stesso secondo me anche con lo spettatore: vuole che tu guardi i suoi film con la libertà di un ex-bambino che guarda il mondo, per questo i suoi film non si possono “spiegare” e tutto quello che puoi ricavare da un professore di una scuola di cinema è soltanto chiusura mentale. Lavorare al suo fianco mi ha permesso di capire che lui è l’opposto di tutto questo, che il suo cinema non ha nulla di verticistico e si basa anzi sulla fiducia nel collaboratore e nello spettatore: lui ha fiducia nelle cose così come sono e le inquadra nella loro concretezza, quasi come in un documentario. In questo senso il suo sguardo è rimasto immutato dai tempi di À bout de souffle e di Masculin, féminin, in questa costante ricerca della verità. Godard non “dà” la libertà, il suo cinema è quasi un gioco di specchi con il mondo.
Adieu au langage è il primo lungometraggio di Godard in 3D. Sin dal momento della sua presentazione a Cannes se n’è parlato come di un 3D rivoluzionario, capace di “aggiungere nuovi termini al vocabolario del cinema”. Adieu au langage ha sperimentato immagini a doppia esposizione in 3D, o inquadrature singole in 3D che si “spezzano” in due per poi ritornare unite; alcuni hanno accostato agli esperimenti sulla prospettiva di Monet, peraltro esplicitamente citato nel film. Da cosa è nata in Godard questa curiosità per il 3D? Qual era l’aspetto del 3D che lo incuriosiva di più? Come avete ottenuto le inquadrature più complesse?
Il modo in cui ci siamo approcciati al 3D per Adieu au langage è lo stesso con cui ci siamo approcciati all’HD di Film Socialisme: Godard mi ha chiesto se volevo fare qualcosa in 3D, e io ho iniziato a metterci le mani, ho provato soluzioni che mi interessavano soprattutto nelle “zone proibite” dalle regole americane. Il principio base del 3D in realtà è molto semplice, ricorda quello alla base della stereofonia per l’audio: sostanzialmente, c’è da realizzare con due diverse macchine da presa un’immagine sinistra destinata all’occhio sinistro e un’immagine destra destinata all’occhio destro; se poi le industrie americane e giapponesi dicono che il 3D è molto complicato e costoso, che serve una macchina da presa da 100000 franchi è perché cercano di guadagnarci sopra, nulla di tutto questo in realtà è necessario. Siccome adoro sperimentare ho provato per mesi interi diverse tecniche, molte delle quali apparentemente vietate dalla grammatica del 3D. Spesso ad esempio ho separato l’immagine sinistra da quella destra, avendo due telecamere: con quella a destra filmavo una cosa e con quella a sinistra ne filmavo un’altra, e poi univo di nuovo l’inquadratura; altre volte ho giocato con la profondità dell’immagine, usando i teleobiettivi che portavano a un risultato completamente diverso da quello usuale. Mostravo queste prove a Godard e lui sceglieva alcune tecniche piuttosto che altre; alcune inquadrature di prova sono anche confluite nel film, come quella della barca sul lago o quella delle mani che suonano il piano.
Le innovazioni sul 3D di Adieu au langage non sono soltanto formali, ma anche tecniche, perché di fatto hai costruito una macchina da presa appositamente per il film. Quali caratteristiche tecniche doveva avere, per te e per Godard, la macchina da presa con cui girare Adieu au langage? Come hai assemblato l’apparecchio?
Inizialmente abbiamo comprato un’importante Panasonic in 3D ma non ci è sembrata interessante da sfruttare, neanche accentuando i suoi difetti, e allora abbiamo finito per utilizzare diverse apparecchiature. Le riprese di Adieu au langage sono durate quattro anni, quindi avevo tempo di fare nuove prove e nuovi test. Il principale apparecchio utilizzato l’ho comunque fabbricato con le mie mani, in modo del tutto artigianale: non a caso la prima cosa che ho acquistato era una perforatrice che mi serviva per fare dei buchi abbastanza precisi su un pezzo di legno per creare i supporti per tenere insieme le due macchine da presa. Siccome per Film Socialisme ci eravamo trovati bene con la Canon 5D, con Jean-Luc ci siamo detti di provare a fare il 3D con la stessa strumentazione di partenza; abbiamo quindi dovuto acquistare una seconda 5D e avere con noi doppie ottiche per ogni formato: due da 35mm, due da 50mm, due da 80mm… Per mantenere vicine le due videocamere ho iniziato a costruire un supporto in legno e in alluminio, tenendo anche una delle due 5D a testa in giù in modo che i due obiettivi non fossero troppo distanti l’uno dall’altro. In questa fase ho fatto anche delle prove con degli specchi di vario tipo per mettere l’asse dei due obiettivi il più vicino possibile l’uno all’altro, ma il risultato era meno interessante del previsto, venivano fuori delle immagini un po’ pallide e abbiamo messo da parte questa soluzione. La D5 è stata la macchina da presa che abbiamo utilizzato di più per Adieu au langage, ma abbiamo realizzato alcune inquadrature in 3D anche con due Go-Pro; tutte le immagini che Jean-Luc ha fatto del suo cane mentre lo portava a passeggio le ha filmate con due piccolissime camere 3D della Sony e della Fuji che poteva tenere in tasca come un iPhone. A un certo punto poi la Canon ci ha prestato delle apparecchiature in 4K con cui abbiamo girato alcune delle scene con gli attori. Sul set eravamo solo in tre: Jean-Luc, io e Jean-Paul Battaglia. È Jean-Paul Battaglia che accoglie le persone e mantiene una buona atmosfera sul set, Jean-Luc ed io siamo più taciturni e impacciati. Nel caso di Adieu au langage io mi sono occupato sia del suono che dell’immagine, impostavo la doppia camera, gestivo i fuochi e le aperture, davo i motori alla camera sinistra e alla camera destra, facevo partire l’apparecchio per la registrazione e alla fine davo il via per il ciak.
Durante la preparazione di Adieu au langage, avete lavorato su commissione della città portoghese di Guimarães, capitale europea della cultura nel 2012, a un cortometraggio in 3D intitolato Les trois désastres, presentato a Cannes nel 2013 nel film collettivo 3X3D accanto a lavori analoghi di Greenaway ed Edgar Pêra. Les trois désastres è stato una sorta di banco di prova di Adieu au langage, con cui condivide diverse inquadrature. Quali soluzioni artistiche e strumentazioni tecniche avete provato girando e montando questo lavoro? Come si sono svolte poi le riprese del lungometraggio?
Les trois désastres fu molto interessante da realizzare perché ci portava un budget più ampio permettendoci di sperimentare molto, ci anticipava quasi metà del lavoro per Adieu. Con Les trois désastres di fatto abbiamo ricevuto la possibilità di fare una prova, di vedere come realmente funziona il 3D in una grande sala, perché avevamo dubbi su questo aspetto. Les trois désastre è stato un buon banco di prova anche per me, perché per Film Socialisme mi ero occupato della color correction ma non del mixaggio né della finalizzazione del film, invece a partire da Adieu au langage ho iniziato a fare anche il mix audio e la copia digitale per le sale, che non è la semplice 5.1 dei film in 2D. Les trois désastre è stato un passaggio intermedio anche sotto questo profilo. Nel frattempo però avevo già lavorato come montatore, colorist e co-produttore ad Amore carne di Pippo Delbono e per quel film avevo fatto la mia prima copia digitale in HD per la sezione Orizzonti di Venezia e aveva funzionato bene. Anche qualche anno dopo si è verificato un simile passaggio di strumentazioni da un film di Delbono a un film di Godard perché mi è capitato di usare la Sony A7 su Vangelo per poi utilizzarla per Le livre d’image.
Pensi si possa fare qualche confronto fra il cinema di Godard e gli esperimenti cinematografici di Pippo Delbono, che di base è un regista teatrale?
Sicuramente sono delle persone caratterialmente molto diverse, che fanno film molto diversi, con mentalità molto diverse: Jean-Luc Godard è molto generoso, lo vedo anche quando andiamo al ristorante e lascia grandi mance ai camerieri, Pippo è molto genovese, per così dire. Spesso Godard dice “va bene così, per oggi può bastare questo”, mentre con Pippo mi sono ritrovato a montare Amore carne in tre giorni, quasi ininterrottamente. Io non avverto però una differenza fra i due perché sono sempre io a girare, la mano che reggeva la camera per inquadrare Pippo, Bobò o Giovanni è poi la stessa che realizza le immagini per i film di Godard.
Film come Adieu au langage, esperienze interamente visive che mirano a volte esplicitamente a sancire la “morte” del linguaggio – “La langue ne sera jamais un langage”, dice Godard lungo i titoli di coda del successivo Le livre d’image – e in cui come battute vi sono dialoghi spesso in overlapping alternati con numerose citazioni da autori di ogni tempo, hanno una sceneggiatura? Se sì, come viene composta?
Le sceneggiature di questi film di Godard evidentemente non sono delle sceneggiature classiche e la loro composizione richiede due tempi, il primo dei quali è “spaziale”: liberiamo gli scaffali dello studio di Jean-Luc da tutti i DVD, i VHS e i libri che ha e cerchiamo di rimetterli a posto utilizzando un piano della libreria per ogni capitolo del film, rimettiamo in sequenza i vari DVD, immagini scattate durante le prove con gli attori, frammenti di testo. Partendo da questa installazione Godard fa un collage molto particolare, una sorta di storyboard composto da materiali diversi che accumula sul suo taccuino – per Le livre d’image ricordo in particolare che era una Moleskine – dove appunta piccole parti di testo. Poco prima delle riprese lui scrive con una macchina da scrivere i dialoghi e li dà agli attori con qualche giorno di anticipo. Una volta sul set ci accordiamo su dove e come mettere la macchina da presa, io propongo un obiettivo, prepariamo la scena e poi giriamo, è tutto molto semplice. Se c’è un movimento di macchina montiamo un sistema di travi, ma sempre in questa maniera molto estemporanea e artigianale: ad esempio in Adieu au langage abbiamo usato addirittura un piccolo trenino elettrico per mettere la doppia camera su un vagoncino.
Godard sembra avere un approccio radicalmente proprio nel realizzare film, non solo dal punto di vista della narrazione e del montaggio, ma anche per quanto riguarda la fase delle riprese. Nei film in cui ci sono attori, Godard permette margini di improvvisazione?
Improvvisazione con gli attori no, generalmente non c’è, se mai è Godard a improvvisare, nel senso che si mantiene aperto a qualcosa di inaspettato che può accadere durante l’interazione sul set. Ricordo in particolare una scena di Adieu au langage: una scena molto semplice, in cui una delle due ragazze cammina davanti alla tv dove passa un vecchio film e si siede su una poltrona. L’unica luce era una lampadina che stava davanti all’obiettivo, non avevamo altre luci artificiali e quella bastava a creare un contrasto abbastanza forte. Inizialmente abbiamo fatto tre o quattro take in cui la ragazza non si sedeva sulla poltrona, restava in piedi, poi ho proposto che si sedesse: Jean-Luc non era particolarmente convinto ma ha detto “se volete facciamo altri due o tre take così”, e quando lei si è seduta si è creato un effetto visivo bellissimo ma del tutto imprevisto perché lei ha messo la testa a coprire esattamente la lampadina, che produceva attorno ai capelli un effetto luministico molto particolare. Durante il montaggio, all’inizio Godard aveva scelto uno dei primi take e quando lo vidi provai a ricordargli quell’inquadratura più particolare; dapprima non era molto convinto, perché c’erano altre scene con personaggi seduti, ma poi mi sono accorto che aveva messo il take che gli proponevo. Quel momento del film mi piace particolarmente perché dopo quell’inquadratura c’è un taglio di montaggio e vediamo un primo piano della ragazza che, sempre nella stessa stanza, racconta all’amante che sta poco dietro di lei una storia sulle camere a gas in cui una bambina andando a morire chiede alla madre “perché?” e una SS sbotta urlando in tedesco “non c’è nessun perché!”; e intanto scorre sullo sfondo il vecchio film in bianco e nero che è un po’ un richiamo alla finzione del cinema. Questo cambio di inquadratura mi colpisce molto perché lo spazio scenico è lo stesso, la luce è la stessa ma abbiamo spostato la camera di appena 180° per ritrovarci da questa sorta di paradiso perduto all’inferno più terribile, da una normale casa quasi al centro di Auschwitz. Ecco è questa, secondo me, l’improvvisazione di Godard.
Ne Les trois désastres e in Adieu au langage si inseriscono nel film immagini o riprese girate su un supporto diverso da quello 3D – spesso si tratta di spezzoni di vecchi film. Come fate a rendere tridimensionali anche quelle immagini?
Spesso e volentieri si trattava di film già in 3D che io ho quasi piratato, come Piranha 3D per esempio. Credo però sia più interessante lavorare sul contrasto tra 3D e 2D perché la profondità è diversa, in un caso si trattava di una vera e propria profondità fisica, in un altro caso di una profondità “mentale”. Una delle scene più interessanti di Adieu au langage per me è un’inquadratura notturna in cui si vedono proiettate su una stradina le ombre di due degli attori, una delle coppie: le ombre sono naturalmente in 2D, però vengono riflesse su una stradina che noi abbiamo ripreso in 3D, per cui si vede il 2D in un’inquadratura in 3D e si crea un cortocircuito molto interessante, quasi metacinematografico. Gli spezzoni dei film in 2D li ho messi come schermo piatto o, in altri casi, ho comunque provato a metterli un po’ più “indietro” per così dire, a creare una sorta di profondità.
Come si svolge la fase di post-produzione di queste ultime opere di Godard, e in modo particolare come avete collaborato nel caso di Adieu au langage?
Godard monta il grosso del film da solo in VHS, e mi chiama al suo fianco quando il montaggio è già quasi finito; al termine di ogni settimana chiama me e Jean-Paul per mostrarci quello che ha fatto, ma il montaggio di per sé richiede solitudine, al pari della scrittura. Jean-Luc monta in cassette su questo vecchio apparecchio elettronico dove può sostanzialmente solo alterare un po’ i colori, mettere più luce o più colore o abbassare i neri: ma anche se questo apparecchio ha solo due o tre pulsanti ci dà una traccia molto precisa di come muoverci anche a livello di color, e a volte sono più preziose e dinamiche le sue immagini di quelle che si possono fare con strumentazioni ben più evolute. Quando lui finisce di montare una ventina di minuti di film io li carico sul PC e gli restituisco le cassette, cosicché lui possa continuare a vederle assieme alle altre, e intanto inizio il mio lavoro di (ri)montaggio e di color. Anche nel caso di Adieu au langage Jean-Luc ha montato in 2D con le VHS e dopo io ho fatto il conforming rimontando tutto il film manualmente con le immagini in 3D. Anche se Godard ha visto il risultato in 3D solo alla fine di questa fase, aveva sempre tenuto conto della profondità dell’immagine tridimensionale, e quindi è andato tutto bene.
In color correction, quale programma usate? Quali sono gli interventi che Godard ti chiede più spesso di fare?
Per il 3D di Adieu au langage ho comprato DaVinci Resolve, perché era più semplice lavorarci rispetto ad Avid, che è un software di montaggio caro e molto professionale; dopo qualche tentativo ci siamo accorti che non dava la libertà che volevamo. Ancora prima avevo lavorato con Final Cut, all’inizio le stesse prove in 3D erano con Final Cut, ma alla fine abbiamo spostato tutto su DaVinci perché include anche l’audio e ti permette di passare continuamente dal montaggio alla color al mixaggio audio. Jean-Luc generalmente ha in VHS anche i film di cui rimonta alcuni frammenti nei suoi: ad esempio una volta aveva preso un’inquadratura dal VHS di un film, sulla quale era intervenuto in maniera piuttosto forte a livello di colore, al punto che non si vedeva quasi più niente; quando è arrivato il mio turno di intervenire sul montaggio e sulla color ho preso il bluray del film in questione e ho fatto un melange tra il colore di Jean-Luc e il bluray colorizzato su DaVinci.
Presentato nel 2018, Le livre d’image è attualmente l’ultimo film di Godard, una riflessione sul mondo arabo e su come il cinema (non) ha cambiato il mondo contemporaneo, soprattutto per quanto riguarda l’elaborazione di avvenimenti come l’Olocausto o il conflitto israelo-palestinese. Molte delle immagini de Le livre d’image sono tratte da altri film, ma ci sono anche numerose riprese originali, realizzate soprattutto nei paesi arabi. A differenza di Adieu au langage qui non c’è però nessun attore. Come si sono svolte le riprese del film e quanto sono durate? Cosa cercava di riprendere Godard nei paesi arabi e in particolare in Tunisia?
Nel caso de Le livre d’image alla fine sono diventato anche produttore del film e mi sono occupato di meno delle cose tecniche anche perché era un film essenzialmente di montaggio. La seconda parte si ispira vagamente al romanzo Une ambition dans le désert di Albert Cossery, ambientato in un paese immaginario nel Golfo Persico. Per questo motivo siamo andati in Tunisia due o tre volte per pochi giorni, per fare dei sopralluoghi nei quali, in realtà, si sono esaurite le riprese del film. Jean-Luc veniva con noi ma spesso preferiva restare in albergo piuttosto che viaggiare in macchina per le stradine polverose della zona. Io poi di mattina mi alzo presto e così ho avuto modo di girare parecchie inquadrature del Sole che si alzava sul mare, con il vento in movimento e giochi di luce e di ombre. Godard ha utilizzato diverse di queste immagini in fase di montaggio ma mettendoci le sue mani da pittore: nel senso che le immagini all’origine non erano così colorate, lui le ha rielaborate con la sua apparecchiatura in VHS e poi io, su DaVinci, ho ripreso l’immagine originale e ho rifatto i colori seguendo la sua traccia. Quelle de Le livre d’image non sono veramente riprese secondo me, sono più che altro immagini di viaggio alla National Geographic, e comunque rappresentano circa il 10%-15% della durata del film, composto prevalentemente da materiali di altri. Durante questi sopralluoghi Godard si è accorto che quelle immagini bastavano, che non servivano attori, che più che far recitare qualcosa a qualcuno era più interessante recuperare nel montaggio dei frammenti del cinema di quel dato paese arabo o la fotografia di un rivoluzionario algerino dei tempi della guerra d’indipendenza. Per Godard è più importante essere che avere un ruolo, il ruolo da solo è come una marionetta ma è difficile dire a un attore di non essere attore, tutti gli interpreti hanno i loro binari, i loro metodi, le loro tecniche di recitazione. Questa è una riflessione che ha sempre accompagnato il cinema di Jean-Luc, che già nei primi film faceva rompere la quarta parete ai suoi interpreti.
Negli anni ’80 poi ha fatto un esperimento molto interessante con il film televisivo Grandeur et décadence d'un petit commerce de cinéma, per il quale ha collaborato con un ufficio di disoccupazione: venti disoccupati mettono in scena un testo di Faulkner, il personaggio e la finzione restano ma sono costruiti a partire da esseri umani reali, è una dimensione cinematografica più forte, un salto nella realtà unico e autentico. In questo, se vogliamo, possiamo notare un’analogia fra Jean-Luc e Pippo Delbono, perché anche Pippo mette persone reali nei suoi spettacoli o nei suoi film, creando un doppio incontro tra realtà, essere e finzione. Ad esempio Vangelo lo abbiamo realizzato con i ragazzi di un centro di accoglienza per migranti. Io stesso, seguendo lo stesso ragionamento, ho in preparazione un mio film, di cui ho girato qualcosa e che dovremmo terminare l’anno prossimo: si intitola Le Lac, è un film sul tempo e sulla vita incentrato su una coppia che partecipa a una gara in barca. La donna è interpretata da Clotilde Courau, un’attrice francese piuttosto nota nonché moglie di Emanuele Filiberto di Savoia, ma a prestare il volto all’uomo è Bernard Stamm, un noto skipper svizzero che ha fatto più volte il giro del mondo in solitaria in barca a vela, e che non ha nessuna esperienza attoriale.
Godard cita molti film del passato in queste sue ultime opere, ma non si riallaccia affatto a nessuna narrazione tradizionale, se mai è più vicino alla pittura. Quali sono, secondo te, i registi sperimentali e i pittori di ogni epoca che più stanno influenzando Godard nell’ultima parte della sua carriera?
I pittori sono sempre un po’ gli stessi: i Fauves a cominciare da Matisse, ma anche Manet, su cui c’era un progetto per ora non realizzato, Tintoretto... Come cineasti dipende, è tornato a Bresson, riguardando insieme qualche tempo fa Un condamné à mort s'est échappé Godard ha detto che è esattamente questo quello a cui dovremmo arrivare, il punto in cui ogni inquadratura, ogni movimento, ogni raggio di luce riesce ad esprimere da solo il film. Guarda molto cinema sperimentale ma ovviamente non si limita a questo. Ama i film di spionaggio. C’è una serie francese che si chiama Le bureau des légendes, incentrata sul sistema di spionaggio francese, una serie d’azione ma con un fondamento reale, Godard la guarda in tv. Però nel suo ufficio ci sono molti libri di pittura, classica, rinascimentale, impressionisti, i fauves. Non c’è un’influenza più forte di un’altra.
Godard ha dichiarato che preferirebbe che Le livre d’image venisse visto su un televisore, con due altoparlanti ai lati, all’interno di una piccola stanza. Poco prima dello scoppio del Covid, a Milano la Fondazione Prada ha “esposto” una sorta di riproduzione dello studio di lavoro di Godard a Rolle, di fatto una mostra di video-arte. Credi che esista un confine netto fra cinema e video-arte? Il grande schermo è ancora una prerogativa essenziale del cinema?
Il cinema è immagine e suono. Bastano questi elementi a fare il cinema. Lo schermo è, per così dire, secondario. Su set non c’è uno schermo, ma stai già facendo cinema. Sì, Le livre d’image potrebbe essere visto fuori dalle sale cinematografiche. C’è anzi un progetto che mira proprio a questo, l’idea di proiettare il film in luoghi atipici proprio per rifondare il cinema dopo che la sala in qualche modo si è corrotta. Del resto, molti televisori in 4K hanno migliore definizione delle sale cinematografiche, e per il Covid guardare un film con mille persone fino ad almeno due anni non sarà possibile. Per me e per Jean-Luc il cinema non si definisce in base alla grandezza dello schermo o alla disposizione degli altoparlanti. Alla Fondazione Prada c’era uno schermo abbastanza grande, 72 pollici, e c’erano dei buoni altoparlanti a una certa distanza dall’immagine, gli altoparlanti non stavano “dietro” lo schermo come al cinema. In questo modo hai un rapporto immagine-suono più evidente, quindi ancora più cinematografico che in una sala normale perché si fanno più connessioni fra immagine e suono, quasi un 3D sonoro.
C’è qualche nuovo progetto di Godard all’orizzonte?
Sì, stiamo preparando qualcosa. Abbiamo due o tre progetti nuovi, non sappiamo quale sarà girato per primo. Questo settembre dovrei iniziare a fare delle prove, forse in Super 8 o in 16mm, c’è l’idea di ritornare un po’ alle origini: prima la pellicola, poi l’HD, poi il 3D, adesso di nuovo la pellicola. Siamo incuriositi in particolare dal Super 8, vogliamo farlo sviluppare in negativo per vedere quello che dà, girare a 8 fotogrammi al secondo con il suono in sincrono.
Le Livre d'Image è disponibile su RaiPlay: https://www.raiplay.it/programmi/lelivredimage)