Il tempo con Antonioni. Conversazione con Edoardo Ponti
Edoardo Ponti (Ginevra, 1973), figlio di Sophia Loren e del produttore Carlo Ponti, è regista, sceneggiatore e produttore, saltuariamente anche attore. Nel 2002 esordisce al cinema con Cuori estranei, proseguendo la sua carriera con Coming & Going ed i premiati cortometraggi Away We Stay, Il turno di notte lo fanno le stelle, dall’omonimo racconto di Erri De Luca, e Voce umana, da Jean Cocteau, presentato a Venezia. Il suo film più recente, La vita davanti a sé, tratto dall’omonimo romanzo di Romain Gary e interpretato da Sophia Loren e Renato Carpentieri, è stato uno dei maggiori successi di Netflix nel 2020 ed è stato candidato ai Golden Globe come Miglior film straniero. Nella seconda metà degli anni ’90 Edoardo Ponti è stato l'assistente personale di Michelangelo Antonioni, appena insignito del premio Oscar alla carriera, per la realizzazione di due progetti poi sfumati: Tanto per stare insieme, fortemente desiderato anche da Jack Nicholson, e il fantascientifico Destinazione: Verna, che avrebbe visto Sophia Loren protagonista.
Quali sono i tuoi primi ricordi di Michelangelo Antonioni? A che età hai iniziato a conoscere il suo cinema e quali sono i suoi film che ti sono rimasti più impressi?
Il nome di Michelangelo Antonioni veniva pronunciato innumerevoli volte a casa mia mentre stavo crescendo: conoscevo il nome “Michelangelo Antonioni” prima ancora di sapere quale professione facesse esattamente. Quando avevo 4 o 5 anni sapevo soltanto che lui era un collaboratore di mio padre, un suo amico, e che mio padre era molto orgoglioso del lavoro che stava facendo con lui.
Quando sei nato, nel 1973, Antonioni era già uno dei più importanti cineasti al mondo, e dal 1966 stava collaborando con tuo padre ad un trittico di film in lingua inglese che avrebbe cambiato la storia del cinema: Blow-up, Zabriskie Point e Professione: Reporter. Come si lega la storia della tua famiglia a quella del cinema di Antonioni? Come era nato l’incontro tra lui e tuo padre e come si è svolta la loro collaborazione?
Solo quando ero di qualche anno più grande vidi il risultato della loro prima collaborazione, Blow-up. Vidi quel film quando avevo più o meno 15 anni, a Madrid, da un VHS che apparteneva a un mio amico. Ricordo molto bene quella sera: iniziai a vedere Blow-up che erano le sei di pomeriggio, e finì verso le 20; ero talmente impressionato, ipnotizzato che, non appena finì, lo rividi immediatamente per una seconda volta.
Cosa ti aveva colpito così tanto?
Era la prima volta che vedevo un film che provava a trasmettere tutte quelle sensazioni silenti, evocative e astratte di cui tutti noi facciamo esperienza nel corso della nostra vita, nei rapporti fra le persone. Le relazioni fra gli uomini sono così difficili da raccontare e spiegare, ma Michelangelo era stato capace di trasmettere quel mistero, attraverso la sua sensibilità, attraverso la sua intelligenza, attraverso la sua maestria estetica nel gestire il linguaggio cinematografico. Dopo Blow-up, iniziai a vedere i film in maniera diversa: per me, come spettatore, c’è stato un “prima di Blow-up” e un “dopo Blow-up”. Quella sera chiamai mio padre e gli dissi che avevo visto il film: lui era sorpreso che non lo avessi ancora fatto, ma sai, quando sei un ragazzino e tuo padre va fiero di qualcosa, tu la rifiuti per una forma di ribellione; avevo bisogno di vedere Blow-up a modo mio, con i miei tempi. Da quel momento in poi, il cinema di Michelangelo Antonioni entrò nel mio cuore, nel mio corpo e in tutti i miei sensi.
Michelangelo Antonioni e Vanessa Redgrave sul set di Blow-up
Dopo Blow-up, come continuasti ad esplorare il suo cinema?
Una volta entrato nel mondo di Antonioni con Blow-up, i film che vidi subito dopo non furono Zabriskie Point o Professione: Reporter, gli altri due prodotti da mio padre, ma andai a ritroso per vedere i film che Michelangelo aveva realizzato in precedenza, come L’avventura, L’eclisse, La notte, Il grido. Un luogo comune negativo sulla filmografia di Antonioni dice che i suoi film sarebbero “freddi”, privi di emozioni. Io non ho mai sentito freddezza, anzi ho sempre avvertito l’opposto: nel cinema di Antonioni, per me, c’è un grandissima esperienza dell’umanità. Attraverso i suoi film Michelangelo Antonioni si è sforzato di cogliere ciò che di immateriale si situa tra due persone: non c’è niente di più “umano”, allora, di un artista che ha l’ambizione di accendere una luce tra due personaggi, due esseri umani. Ho iniziato a vedere i film di Antonioni da adolescente, negli anni dei primi appuntamenti, delle mie prime ragazze, ed era interessante analizzare e comprendere le mie esperienze attraverso il prisma di quello che Antonioni aveva rappresentato nei suoi film. I film di Antonioni mi dicevano la verità, senza mezzi termini: le relazioni sono difficili, l’abilità di creare una vera connessione con un altro essere umano non è affatto immediata; ma capisci che i suoi personaggi hanno il desiderio di farlo. Questo desiderio di relazionarsi mostra come Michelangelo stesso fosse un uomo che si sforzava sempre di relazionarsi, di trovare una connessione con le persone.
Negli anni ’90 Michelangelo Antonioni era già duramente debilitato dalla malattia, ma aveva vinto l’Oscar alla Carriera a febbraio del 1995 per poi presentare, al Festival di Venezia dello stesso anno, Al di là delle nuvole, realizzato in collaborazione con Wim Wenders. Quando e perché hai iniziato a collaborare con Antonioni come suo assistente personale?
Ho iniziato a collaborare con Michelangelo quando lui venne a Los Angeles per dirigere il film Tanto per stare insieme, e io ero uno studente di cinema all’University of Southern California, al secondo o terzo anno del corso di Fine Arts. Michelangelo ed Enrica volevano fare visita ai miei genitori e vennero a casa nostra a Los Angeles per un pranzo e, dopo aver passato del tempo con me, lui e sua moglie, considerando il fatto che ero bilingue, che ero uno studente di cinema e che “facevo parte della famiglia”, mi proposero di fare da assistente di Michelangelo durante la pre-produzione e le riprese di Tanto per stare insieme. Accettai immediatamente, ed è così che nacque la nostra collaborazione: era un lavoro part-time mentre andavo all’università.
La tua collaborazione con Michelangelo Antonioni riguardò soprattutto la preparazione di due film che poi non furono realizzati, Tanto per stare insieme, ispirato ad uno dei racconti di Quel bowling sul Tevere, e Destinazione: Verna, ispirato a un racconto di fantascienza di Jack Finney. Di cosa parlava Tanto per stare insieme e quali erano i tuoi compiti nella preparazione del film?
Tanto per stare insieme parlava di un triangolo amoroso ambientato fra gli spazi vuoti della Los Angeles dei primi anni ’80. Era stato scritto da Michelangelo e da Rudy Wurlitzer. Quando entrai a far parte della produzione del film, stavano già scegliendo le location e il cast. Uno degli aspetti più sorprendenti del modo di lavorare di Michelangelo, una cosa che negli anni successivi, una volta diventato regista, ho completamento fatto mio, era che solitamente i registi adattano le location alle necessità della sceneggiatura e delle singole scene; Michelangelo faceva esattamente il contrario, era attraverso l’esplorazione del mondo reale e l’esplorazione delle possibili location che lui impostava le scene nella loro forma definitiva. Si tende a pensare che Michelangelo controllasse in modo forte le ambientazioni dei suoi film, ma in realtà accadeva il contrario: erano i suoi film ad essere plasmati dalle location, dalle emozioni, dalle sensazioni che provava entrando in un possibile ambiente e accorgendosi che era quello giusto, che anzi era meglio di quello che aveva immaginato “a tavolino”. La curiosità di Michelangelo, assieme alla sua flessibilità, mi ha davvero impressionato, perché mi dimostrava che lui era un uomo impegnato nella costante ricerca di un’esperienza autentica. La sua visione registica dipendeva sempre da quello che il “destino” o il caso gli offrivano. Per me, che ero uno studente di cinema, fu un’immensa lezione.
Durante la preparazione di Tanto per stare insieme, come hai interagito e comunicato con Michelangelo Antonioni, e come si è evoluta la vostra relazione mentre gli facevi da assistente per la pre-produzione del film?
Trovammo una connessione su molti diversi aspetti delle nostre personalità, uno dei quali era il senso dell’umorismo: lo facevo ridere molto. Quando diventammo amici lui aveva già avuto l’ictus, era ancora in grado di parlare ma non era facile: mi trovai a riuscire ad intuire piuttosto chiaramente quello che voleva dire, per qualche ragione scoprii questa forte connessione con lui. Mentre stavamo preparando Tanto per stare insieme, partecipavo assieme a Michelangelo agli incontri con gli attori e traducevo in inglese non solo le poche parole che Antonioni riusciva ad articolare, ma anche quello che lui voleva dire: a causa dell’ictus non era più in grado di usare un ampio vocabolario, e già il fatto che potesse in qualche modo esprimersi era un miracolo. Nonostante la sua oggettiva disabilità, Michelangelo aveva ancora un indomabile desiderio di vivere, di comunicare, di esprimersi come regista, di creare. Era qualcosa di eccezionale: chiunque altro nelle sue condizioni si sarebbe semplicemente ritirato a casa a fantasticare sulla vita che avrebbe potuto vivere se non avesse avuto l’ictus; Michelangelo invece ha vissuto tutte le sue vite, fino in fondo. La connessione che avevo con lui, quest’intuizione che mi permetteva di spiegare cosa Michelangelo avesse in mente, era molto utile con gli attori, con i produttori, con gli scenografi: io stavo lì per lui, per settimane e mesi, e questo ha creato un legame molto forte fra di noi.
Avendo lavorato con lui nella preparazione sia di Tanto per stare insieme che di Destinazione: Verna, come hai visto Michelangelo Antonioni impostare il lavoro di ricerca delle location?
Per Verna non ho preso parte ai sopralluoghi, ma per Tanto per stare insieme Michelangelo ed io abbiamo esplorato assieme l’area di Los Angeles e Palm Springs in lungo e in largo. Quando un posto era giusto – quando avvertiva che quel posto era giusto – Michelangelo si emozionava. Arrivava al punto di piangere. Non erano lacrime di tristezza, ovviamente, era solo il fatto che una location che gli sembrava giusta lo coinvolgeva profondamente su un piano emotivo, e commuoversi era la sua reazione a questo. Nella fase di location scouting, era molto libero e spontaneo: ad esempio, se ci dovevamo incontrare alle 10 con una persona che ci doveva mostrare casa sua ma lungo la strada Michelangelo intravedeva un posto che lo incuriosiva, ci diceva di fermarci; mentre stavamo andando alla location ipotizzata, finivamo per trovare altre quattro location che potevano essere giuste per altre scene. In altre parole, Michelangelo non limitava mai la sua espressione creativa, stava sempre attentissimo. Ogni giorno con lui era un giorno di autentica esplorazione. Gli autisti e gli organizzatori impazzivano per stare dietro alle sue richieste, ma non importava, la priorità era rispettare Michelangelo e la sua visione. A volte entravamo in una casa e Michelangelo, oltre a guardare le stanze, apriva anche i cassetti, perché era interessato a conoscere l’energia delle persone che davvero vivevano lì. Tutto poteva diventare qualcosa, per lui, con lui.
Tanto per stare insieme doveva rappresentare la “reunion” di Michelangelo Antonioni con Jack Nicholson, che era stato il protagonista di Professione: Reporter nel 1975 e che aveva consegnato al maestro di Ferrara l’Oscar onorario sul palco dell’Academy nel 1995. Quale ruolo era previsto per Nicholson in Tanto per stare insieme? Cosa ricordi degli incontri fra lui ed Antonioni?
Sinceramente non ricordo se era previsto che Jack Nicholson dovesse anche recitare in quel film; di certo, su richiesta dell’assicurazione, considerate le condizioni di salute di Michelangelo, Jack Nicholson doveva ricoprire la posizione di “regista in seconda”, come aveva fatto Wim Wenders sul set di Al di là delle nuvole. Nella parte finale della sua carriera, Michelangelo doveva sempre essere affiancato da un altro regista, pronto a subentrare, ma sicuramente lui avrebbe diretto ogni singola inquadratura di Tanto per stare insieme, così come aveva fatto per Al di là delle nuvole. A quel tempo Jack Nicholson aveva diretto diversi film per conto suo e, sulla basa del loro lavoro comune per Professione: Reporter, sembrava la scelta perfetta come “regista di scorta”. Ricordo di aver assistito al loro primo incontro dopo anni che non si vedevano. Fu al Monkey Bar, un posto di Los Angeles di proprietà di Nicholson. Jack Nicholson stava alla mia destra, Michelangelo stava alla mia sinistra e io stavo al centro, pronto a tradurre, ma in realtà non ce ne sarebbe stato bisogno: anche se non parlavano la stessa lingua – Michelangelo sapeva parlare in inglese, ma ormai era impedito dall’ictus, e Jack non sapeva una parola di italiano – sono riusciti a capirsi l’un l’altro su un livello completamente diverso. Fu un incontro esplosivo, unico, che mi mise anche in soggezione, perché io ero solo uno studente di cinema al cospetto di due maestri che si rivedevano per la prima volta dopo tanti anni. Ricordo di essermi sentito esausto dopo l’incontro, perché fino a quel momento ero stato concentratissimo sulla traduzione, per essere pronto ad aiutarli in ogni modo possibile. Sono le situazioni che ti formano.
Quale doveva essere il cast principale di Tanto per stare insieme, e perché il film venne cancellato?
Se avessimo avuto un cast, avremmo girato il film. Uno dei problemi che hanno caratterizzato la pre-produzione di Tanto per stare insieme, e che alla fine hanno fatto sì che il film venisse cancellato, era il fatto che non riuscivamo mai a mettere assieme, tutti nello stesso periodo delle riprese, il cast che Michelangelo voleva. Questo mi spezzò il cuore, perché Michelangelo aveva così tanta energia, aveva dedicato così tanto tempo e, considerate le sue condizioni, anche così tanto coraggio. Il fatto che non riuscissimo mai a trovare i giusti protagonisti nel momento giusto fu davvero triste. Quella fu, per un giovane filmmaker, un’importante lezione: non importa chi tu sia, quanto famoso tu possa essere come regista, quanto influente sia la tua filmografia: fare un film non è automatico. Ci sono degli ostacoli che vanno oltre la tua statura; fu una grande lezione di umiltà.
Il successivo Destinazione: Verna doveva essere un film di fantascienza molto atipico e autoriale, con protagonisti tua madre Sophia Loren, Anthony Hopkins, Naomi Campbell e Kim Rossi Stuart. A fine 1998 la Loren rilasciò a «Repubblica» la dichiarazione secondo cui Destinazione: Verna avrebbe messo in atto una promessa di lavorare insieme che lei e Antonioni si rinnovavano da trent’anni, e il prosieguo dell’articolo attribuiva anche a te il merito del loro progetto. Come era nato il coinvolgimento di tua madre? Lei aveva già iniziato a preparare il ruolo, sulle indicazioni di Antonioni?
Mia madre non iniziò mai a “prepararsi” per la parte, visto che la sceneggiatura non era ancora pronta: era una sceneggiatura ancora in sviluppo e, come spesso capita, quando poi una sceneggiatura viene ultimata ti arriva la proposta di un altro progetto e tu ti trovi a fare quello, e via dicendo. Fare un film è sempre un miracolo, perché devi superare così tanti ostacoli prima di poter girare, e spesso, nonostante le migliori intenzioni, non si riesce a realizzare un film per molte, concomitanti ragioni. Il motivo per cui Antonioni e mia madre avevano deciso di collaborare era, sì, a causa del mio crescente rapporto con Michelangelo. Spesso Michelangelo ed io pranzavamo assieme, e spesso questi pranzi si svolgevano a casa mia in presenza dei miei genitori, e mia madre in particolare c’era spesso: durante uno di questi pranzi nacque l’idea della loro collaborazione. Mia madre era sempre alla ricerca di registi visionari, che avessero un’idea chiara di come usare la sua iconografia: un film diretto da Antonioni con mia madre protagonista sarebbe stato, come chiunque può facilmente immaginare, eccezionale. Mia madre Sophia aveva pochi rimpianti: uno di questi è quello di non aver lavorato con Luchino Visconti in La monaca di Monza, un altro è non aver avuto l’opportunità di collaborare con Antonioni malgrado il suo legame produttivo con mio padre. Tuttavia, alla fine, neanche Destinazione: Verna venne girato. Nel nostro lavoro è sempre difficile dire “perché” un film non venga fatto: inizi con le migliori intenzioni, ma poi succede qualcosa. Il film non funziona più, o le stelle non si allineano tutte: il dolore di non riuscire a realizzare un film che magari hai preparato a lungo è reale e si sente, ma è difficile indicare delle ragioni precise. È un po’ come in una relazione: è difficile capire perché ti innamori, a volte è più facile capire perché ti disamori, ma ci potrebbero essere altre dieci ragioni inconsce sul perché non ha funzionato, che tu non saprai mai. La stessa cosa accadde con Verna, qualcosa svanì, e Michelangelo non girò più quell’ultima sceneggiatura. Destinazione: Verna è un film che vorrei girare io come regista, prima o poi.
La fase finale della carriera e della vita di Michelangelo Antonioni venne accompagnata da una serie di figure-chiave, come il direttore della fotografia Alfio Contini, scomparso l’anno scorso, il produttore Felice Laudadio, Kim Rossi Stuart e soprattutto la moglie Enrica Fico. Con quali di queste figure ti sei trovato a collaborare? In che modi Enrica Fico era presente, nella vita e nel lavoro di suo marito?
Non ho avuto l’occasione di conoscere né Alfio Contini né Kim Rossi Stuart, ma ho incontrato diverse volte Felice, quando si occupava di gestire il Festival del Cinema di Venezia. Il mio rapporto è sempre stato con Michelangelo ed Enrica, che era davvero la persona più vicina a lui. Enrica era la “sussurratrice” di Antonioni, lo conosceva profondamente, ed è stata presente nella sua vita fino alla fine. È stata Enrica a raccontarmi che Antonioni amava guardare thriller: magari non gli piacevano, ma gli piaceva guardarli. Una cosa che Michelangelo mi ha insegnato è come raccontare una storia che di per sé è drammatica, con delle situazioni drammatiche al suo interno, attraverso il linguaggio di un thriller, come usare, anche da un punto di vista formale, l’iconografia di un thriller per un dramma. Parlando con Enrica mentre collaboravo con Antonioni come assistente, l’ho capito in modo chiaro. Soprattutto dopo l’ictus, Enrica si è impegnata a creare un ambiente che permettesse a Michelangelo di dirigere i suoi film e di esprimere la sua arte e la sua passione. Enrica facilitava moltissime cose per permettere a Michelangelo di essere se stesso. Anche io e lei stringemmo un buon rapporto. All’inizio della mia collaborazione con Michelangelo mi veniva chiesto di scrivere lettere a loro nome, lettere di lavoro o lettere per gli attori: le prime lettere che scrivevo però erano troppo lunghe, troppo verbose, e mi ricordo che Enrica venne da me per dirmi: «A Michelangelo piacciono lettere semplici, essenziali e che vanno dritte al punto». Enrica mi insegnò a scrivere lettere di questo tipo esprimendomi con il minor numero di parole possibili, una cosa che lei stessa aveva imparato da Michelangelo, quando lui ancora poteva parlare e scrivere senza difficoltà. Ancora oggi penso a quella lezione quando faccio film, e immagino che le inquadrature siano parole, per sforzarmi di girare le scene con il minor numero di piani possibili, solo con quelli essenziali e “inevitabili”. Una scena dev’essere semplice, pura e deve andare dritta al punto, altrimenti vuol dire che non ho colto il segno. In parte, la semplicità e l’“inevitabilità” di quello che giro io l’ho imparato dallo scrivere lettere per conto di Michelangelo Antonioni, cercando di trovare le parole giuste e liberandomi di ogni eccesso.
Parallelamente al tuo lavoro come assistente di Antonioni, nel 1998 hai esordito alla regia con il cortometraggio Liv, presentato al Festival del Cinema di Venezia, dove figurano in veste di produttori esecutivi sia Antonioni che Robert Altman. Come era nato Liv e di cosa trattava? Quale contributo diedero Antonioni e Altman al tuo primo progetto?
Liv era il mio film di laurea all’USC. Era la storia di una ragazza la cui madre moriva di cancro, di un tipo particolare di cancro, e a seguito di questa perdita Liv smetteva di vivere, smetteva di immaginare un qualunque futuro per sé. A un certo punto il destino le faceva conoscere un uomo, con il quale intraprendeva una relazione non sentimentale ma fisica, e questa fisicità faceva rinascere in lei il desiderio di vivere, di riprendere in mano la sua esistenza. Mai avrei immaginato che sia Michelangelo Antonioni che Robert Altman finissero per essere accreditati in questo mio piccolo film e non avrei mai avuto l’arroganza di chiedere un tale onore, ma, a causa, da un lato, del mio legame con Michelangelo, e dall’altro dal fatto che mia madre aveva da poco finito di girare Prêt-à-Porter con Altman, entrambi si sono trovati a vedere Liv, in maniera indipendente l’uno dall’altro. Dopo averlo visto, entrambi mi chiamarono per parlarne e, grazie al loro forte incoraggiamento, chiesi se potessi in qualche modo menzionarli nei crediti di Liv: mi avevano aiutato, e volevo accreditare chiunque mi avesse aiutato nel processo creativo. Ero pronto a citarli in qualunque formula mi avessero proposto, e sia Antonioni che Altman, indipendentemente l’uno dall’altro, mi autorizzarono ad accreditarli come “produttori esecutivi”. Fui completamente stupefatto da questa doppia proposta, e fu così che i titoli di testa finirono per essere il motivo principale di interesse del mio cortometraggio Liv, sicuramente l’unico film in cui Antonioni ed Altman sono accreditati insieme! Fu meraviglioso il fatto che questi due maestri del cinema abbiano visto il lavoro di qualcuno che stava iniziando in quel momento e, con il loro incoraggiamento, mi abbiano dato l’opportunità di includere simbolicamente entrambi nel mio primo lavoro.
Dopo l’“apprendistato” con Antonioni hai avuto un’importante carriera da regista, che ha compreso il tuo lungometraggio d’esordio Cuori estranei, altri due importanti cortometraggi come Il turno di notte lo fanno le stelle e La voce umana e il recente La vita davanti a sé, co-prodotto da Netflix e candidato al Golden Globe come miglior film straniero. Guardandoti indietro, quali pensi siano stati gli insegnamenti registici e umani che la collaborazione con Michelangelo Antonioni ti ha lasciato?
Locandine de La vita davanti a sé, regia Edoardo Ponti, con Sophia Loren (2020)
La sua principale eredità, per me, è il suo indomabile desiderio, il suo bisogno di scrutare la vita, di guardare all’essenza delle relazioni, e questo l’ho imparato attraverso gli occhi di una persona che era sempre alla ricerca del cuore dei rapporti umani, della verità autentica di quello che succede tra di loro. Questo è sicuramente un primo aspetto. Un altro insegnamento è quella combinazione tra il guardare alla vita come da un microscopio, cercando di cogliere le sfumature più autentiche e sottili dei rapporti umani, e, al tempo stesso, di guardare alla vita da 10 chilometri di altezza, a volo d’uccello, per essere sicuro di vedere sempre le motivazioni che stanno dietro ai rapporti, per avere una prospettiva più larga di come queste relazioni si connettano a un insieme più ampio di cose. Questa combinazione dello specifico – del granulare – e dell’universale è qualcosa che Michelangelo possedeva fino in fondo. Forse io ero pronto a recepirla, forse c’era qualcosa in me che era desideroso di imparare ad apprezzare questa combinazione, ma lui senza dubbio è stato la persona che me l’ha insegnata.
Durante i vostri mesi insieme, qual è stato il momento in cui ti sei sentito più vicino a Michelangelo Antonioni?
Mentre si trovava in California per la preparazione di Tanto per stare insieme, Michelangelo aveva preso in affitto una casa di John Malkovich a Los Angeles, non lontano da Hollywood. Un giorno, stavamo seduti in un salone che aveva una grande vetrata, affacciata su un giardino. Era autunno, i colori non erano molto accesi, l’erba era poco luminosa e dagli alberi cadevano le foglie. Qui in California i giardini spesso hanno una sorta di ventilatori, che i giardinieri utilizzano per ammucchiare le foglie in pile prima di buttarle. Uno dei miei compiti era di leggere le sceneggiature insieme a Michelangelo, per essere sicuro di aver compreso la sua visione quanto più possibile. In quel momento stavamo facendo una di queste letture ma, quel giorno, mi accorsi che non era concentrato sul lavoro e alzava continuamente gli occhi per andare il giardino. C’era il vento che scuoteva le foglie e siccome la finestra aveva una forma rettangolare, sembrava quasi un’inquadratura in formato 2.39:1. Io stesso alzai gli occhi per capire cosa stava guardando
Michelangelo con tanta insistenza, e subito mi accorsi che quella era una classica inquadratura antonioniana. Il giardiniere soffiava via le foglie, il suono della sua macchina, il suono del vento che attraversava il giardino, un momento sospeso e privato di un uomo che eseguiva un compito che l’indomani avrebbe ripetuto, perché le foglie sarebbero cadute di nuovo: era un gesto poetico, essenziale e, in qualche modo, inutile. Lui si innamorò di quell’istante, di quella visione, e io gli diedi una piccola gomitata – la nostra relazione era fatta così, non c’erano problemi se io gli davo qualche lieve colpo di gomito – e gli dissi «ti piace, eh?»: lui ricambiò il mio sguardo e fece con la mano un gesto di grande apprezzamento. Non mi scorderò mai di quel momento. Il motivo per cui facciamo film e guardiamo film è per vedere il mondo attraverso gli occhi di un regista, di quel regista, perché la sua visione ci ispira: ed è stato meraviglioso incappare in quel preciso momento in cui Michelangelo Antonioni notava qualcosa che agli occhi di chiunque altro sarebbe stato un gesto qualsiasi di un qualsiasi lunedì e, semplicemente guardandolo, lui lo trasformava in un’opera d’arte – non lo dimenticherò mai.
Dopo che Tanto per stare insieme e Destinazione: Verna furono cancellati, tu ed Antonioni come vi siete salutati?
Mentre stava preparando Tanto per stare insieme, Antonioni indossava sempre una bellissima sciarpa di seta, di colore marrone. L’ultimo giorno, poche ore prima che lui tornasse in Italia perché il film era stato cancellato, Michelangelo, Enrica ed io ci vedemmo per salutarci: io volevo passare il maggior tempo possibile con lui, ed ero molto abbattuto nel vedere Michelangelo andare via, perché avevo creato un legame molto intenso con lui, per cui ci abbracciammo a più riprese. Come ricordavamo, alla fine degli anni ’80 Michelangelo aveva avuto un ictus che aveva lasciato metà del suo corpo paralizzata, ma lui sapeva che mi piaceva molto la sua sciarpa e, con la mano “buona”, se la tirò via fino a quando non cadde dal suo collo nella mano, e me la porse. Ancora la conservo, ovviamente. Fu un momento meraviglioso, una dimostrazione di amicizia che non dimenticherò mai, e che ancora mi commuove.
Michelangelo Antonioni morì il 30 luglio 2007. Al di là delle nuvole rimase il suo ultimo lungometraggio, ma continuò a girare brevi film fino al 2004. Cosa ricordi dei vostri ultimi incontri? Quale pensi sia stato il suo lascito, al cinema italiano e mondiale?
Ricordo di essere stato a casa sua a Roma, all’incirca un anno e mezzo prima della morte, e indipendentemente da come si sentiva giorno per giorno – in forma, o più debole – lo trovavo sempre a creare. L’appartamento di Antonioni era sempre pieno di quadri: sul pavimento quelli più grandi, appesi al muro quelli più piccoli, e tutte queste tele erano a vari livelli di completamento. Era davvero emozionante vedere questo artista che, nonostante tutto, non poteva smettere di creare! Nessuno di noi può smettere di respirare, può smettere di far battere il suo cuore: lo stesso valeva per Michelangelo con la creatività. Non si sarebbe mai potuto fermare, neanche se l’avesse voluto. Era meraviglioso: guardandolo in faccia, vedevi sempre che i suoi occhi avevano l’energia febbrile di un adolescente, nel suo sguardo ogni cosa diventava possibile. Più si invecchia più, in genere, si diventa vittima dei rimpianti e dell’amarezza, ma non trovavo nessuna di queste sensazioni negli occhi di Michelangelo: c’era solo il desiderio di guardare avanti, di creare, di avere rapporto umani, e di comunicare. L’ultima volta che l’ho visto, Michelangelo stava ancora facendo questo e, anche se il suo corpo lentamente si stava indebolendo, la sua immaginazione era ancora accesissima, riflessa in quei colori vibranti. Fino alla fine.
Tu hai avuto modo di leggere due delle ultime sceneggiature scritte e immaginate da Michelangelo Antonioni, e hai un’ampia conoscenza di tutto il suo cinema. Per quanto riguarda le sceneggiature di Antonioni, quali sono le cose che ti colpiscono di più? Quali pensi che fossero gli elementi più innovativi di quegli script?
Le loro ambizioni. Per molti registi, una sceneggiatura è più che una traccia, la sceneggiatura è la bibbia – anche per me. Di solito, la sceneggiatura è quel salvagente che assicura a un regista di avere veramente un film, e basta affidarti alla sceneggiatura e seguirla fedelmente per essere sicuro di ricavarne un racconto che, in un modo o nell’altro, appassionerà il pubblico. Per Michelangelo, la sceneggiatura era solo una traccia, un punto di partenza: si affidava all’istinto del momento delle riprese, di quello che sarebbe accaduto quel giorno sul set con gli attori. C’era una tale flessibilità nel suo processo creativo, una tale apertura, che le sue sceneggiature erano più un segnale di partenza che un punto di arrivo. Le sue sceneggiature erano molto ambiziose perché sapeva che, durante una giornata sul set, tutto poteva cambiare: se si considera quali sono le tappe regolari delle riprese di un film, l’ambizione sta proprio nello scrivere qualcosa che non pianifica esattamente quello che farai sul set, qualcosa che è solo l’inizio di quello che andrai a fare. Robert Altman faceva lo stesso: anche le versioni definitive delle sue sceneggiature erano decisamente brevi. A volte le scene non avevano dialoghi, perché lui sapeva di voler chiedere agli attori di improvvisare, per cui magari la “scena 5” era solamente una breve descrizione delle dinamiche dei dialoghi, “nella scena sei accadrà grosso modo questo, ma non ne sono sicuro”. Se io facessi così, nessun produttore mi darebbe un dollaro, ma siccome Michelangelo e Robert erano maestri se lo potevano permettere, e questo rendeva i loro film molto liberi! Fare film è come fare un esercizio militare: devi essere un generale molto deciso per mobilitare la troupe, l’equipaggiamento, gli attori, devi trasmettere una tale sicurezza e ispirazione che, anche se tu stesso non hai una chiara idea di quello che farai come potrebbe dartela una sceneggiatura tradizionale, i tuoi collaboratori ti seguiranno ugualmente ‒ perché c’è qualcosa in te che dà fiducia, c’è una sensibilità in te che entusiasma e che rende tutti sicuri del fatto che quello che sulla sceneggiatura sembra “quasi niente” diventerà effettivamente parte di un film, perché lo si vede nella mente e nel cuore del regista. È questo il motivo per cui le sceneggiature di Michelangelo erano straordinarie e questo è il motivo per cui i suoi film erano così ricchi di significato e liberi.
Alla fine non hai mai avuto l’occasione di condividere un set con Michelangelo Antonioni, ma hai preso parte a svariati incontri che lui ebbe con i potenziali interpreti dei film. Sulla base della tua esperienza e di quello che puoi aver sentito da suoi collaboratori di vecchia data, Michelangelo Antonioni come interagiva e dirigeva gli attori? Cosa pensi che caratterizzasse le performance degli attori dei suoi film?
Penso che, prima di ogni cosa, si fidasse di loro. Il suo lavoro con gli attori consisteva nello sceglierli. Come tutti noi registi, per Antonioni la scelta del cast era tutto, ma, una volta scelto un interprete che lo convinceva, penso che desse al performer molta flessibilità nell’interpretare il ruolo. Se ci pensi, i film di Michelangelo Antonioni sono tutti piuttosto intellettuali e formali nella loro struttura e nelle loro ambizioni estetiche, e tuttavia non sono mai noiosi o “pretenziosi”. Penso che questo accada perché lui permetteva agli attori di infondere nei personaggi che “interpretavano” la loro individualità, con tutte le loro idiosincrasie. Se prendi David Hemmings in Blow-up, senti che è una persona autentica, non solo un “personaggio”: all’interno delle inquadrature tipiche di Antonioni, con un gusto formale chiaro e definito, vedere una figura tanto fragile, umana e spontanea aggiunge molta vita ai suoi film. In un certo senso, questo dava ai film di Antonioni tutte quelle sfaccettature che un approccio puramente formale di solito non dà. Lui si fidava dei suoi attori al punto da invogliarli a portare nel film tutta la loro spontaneità, e il suo controllo sugli interpreti si limitava alla loro scelta: doveva essere sicuro che ogni attore corrispondesse bene all’iconografia che lui aveva immaginato per quel personaggio, al suo profilo; una volta fatte le sue scelte, lasciava che gli attori si sentissero liberi, li lasciava essere spontanei. Grazie a ciò i suoi film non sembrano rigidi, e i suoi attori non sembrano recitare: Jack Nicholson in Professione: Reporter, David Hemmings in Blow-up, Monica Vitti in tutti i film che hanno girato assieme, Alain Delon ne L’eclisse, Jeanne Moreau ne La notte sono tutti piuttosto liberi, piuttosto spontanei. E in ogni caso dovevi essere un ottimo attore per lavorare con lui: una volta sul set, Michelangelo Antonioni non ti avrebbe dato molte indicazioni sulla tua performance, tu dovevi avere per conto tuo una sufficiente consapevolezza di te per apparire all’interno di un film di Antonioni, perché se non avevi un carattere chiaro, forte, ben definito allora davvero saresti apparso rigido. Dopo averti scelto, lui semplicemente ti chiedeva di mostrargli quello che avevi già di tuo: penso sinceramente che questa sia la migliore strada per ottenere dagli attori le loro interpretazioni migliori.
Michelangelo Antonioni era sempre alla ricerca di una “specificità filmica”, cercando sempre di raccontare una storia in un modo che solo il cinema rendeva possibile, all’interno di inquadrature di grande bellezza visiva e contraddistinte da un utilizzo geometrico dello spazio. Quale pensi che siano state le influenze, pittoriche, fotografiche o cinematografiche che fossero, di Michelangelo Antonioni, e verso dove pensi che la sua personale ricerca cinematografica fosse diretta?
Non ho sufficiente autorità per parlare delle sue “influenze”, ci sono molti critici più adatti del sottoscritto a cui fare questa domanda. Quello che posso sicuramente dire è che Michelangelo aveva un forte senso dell’immagine, com’è ovvio che sia; tuttavia penso che le persone si siano concentrate un po’ troppo su questo aspetto, e non abbastanza sul “senso dell’umano” che lui aveva. Le persone hanno confuso l’incapacità che i personaggi dei suoi film hanno nel relazionarsi l’uno con l’altro con una forma di freddezza o di mancanza di fede nell’umanità che portava a un “estetismo”. Per me questa è una visione sbagliata. L’immagine era solo un modo attraverso cui Michelangelo si esprimeva, ma nei suoi film era altrettanto importante quello che lo ispirava come essere umano: il fatto che i film di Antonioni siano pieni di persone che hanno difficoltà a comunicare è il riflesso di un suo autentico desiderio di comunicare, con le persone attorno a lui e con il suo pubblico, e di infondere nei suoi film la sua visione dell’arte e la sua visione dell’anima. Michelangelo Antonioni è noto in tutto il mondo come un regista molto “visivo” ed evocativo, ma io l’ho conosciuto come un regista il cui cinema sgorgava dal cuore, e questo è il motivo per cui, negli anni a venire, pensare alla nostra amicizia e alla nostra collaborazione ancora mi tocca, perché durante quei mesi ho avuto modo di vedere cosa autenticamente lo ispirasse, ho visto le emozioni che portavano alla creazione di quelle immagini: e ho capito che erano immagini che non provenivano mai da un’immaginazione puramente intellettuale, ma da un’ispirazione che originava dal suo cuore e dalla sua anima.
Oltre ad essere un autentico esteta dell’immagine e dell’anima dei suoi personaggi, Michelangelo Antonioni era molto preparato sulla tecnica, e il suo film Il mistero di Oberwald, datato 1980, è stato il primo film nella storia del cinema ad essere stato girato in video, l’antenato del contemporaneo digitale, per permettergli di avere un maggiore controllo sul colore.
Dal momento che Michelangelo era impegnato in un processo di creazione continua, era molto aperto ad ogni tipo di strumentazione che gli permettesse di girare senza tutti quegli “ostacoli” e intoppi, camion, luci e via dicendo, che si trovano su un set tradizionale. Sono sicuro che gli sarebbe piaciuto tantissimo girare un film con un iPhone: se avesse trovato la storia giusta, girare con l’iPhone gli avrebbe permesso di creare immagini alla stessa velocità in cui andava la sua mente. Michelangelo era aperto a sperimentare ogni genere di tecnologia, questo è sicuro. Per quanto riguarda la sua celebre ossessione per il colore, ricordo che un giorno mio padre mi raccontò che Michelangelo voleva dipingere l’erba verde e marrone, perché aveva una sua idea di come dovesse essere il colore dell’erba: era un artista, e, come ogni artista, era determinato a rappresentare il mondo nel modo in cui lui davvero lo vedeva. Il colore era sicuramente un aspetto della sua visione, ma la sua tavolozza era ancora più grande della sua pur immensa attenzione per l’immagine, o per il colore, o per le persone – era tutte queste cose assieme. Ciò che rendeva Michelangelo Antonioni un grande regista non era un singolo elemento del suo modo di concepire il cinema e la regia, come può essere il colore, o l’impostazione dell’inquadratura, o lo stile di scrittura: Antonioni era un vero maestro del cinema per il modo in cui riusciva a mettere insieme tutti questi aspetti, dalla concezione alla post-produzione di un suo film, senza dimenticare dei suoi quadri, in una forma che era visivamente indimenticabile e intellettualmente stimolante. La sua arte sgorgava nella forma di un equilibrio di tutti questi aspetti, interessi e capacità. Così Michelangelo riusciva ad affrontare di volta in volta una nuova storia nel modo giusto, al momento giusto. E l’arte è questo in fondo: senso del tempo. Senso del tempo, disciplina e apertura al nuovo.
Un ringraziamento speciale al direttore della fotografia Ferran Paredes Rubio per aver permesso quest’intervista.
Si ringrazia anche Tobia Cimini per il supporto tecnico e la collaborazione durante l’intervista.
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