L’utopia non è un sogno senza fondamento. Storia e opere di Marc Scialom
«A tutti quelli che lavorano ostinatamente nell’ombra, ai cineasti marginali, dilettanti, atipici, che so esplodere di una passione umiliata e brulicano di mille folgorazioni, tali da far impallidire il cinema e la televisione ufficiali, a tutti coloro che la “professione”, con superbia, ignora, io dedico Lettre à la prison e la sua avventura»[i].
Sono parole di Marc Scialom, regista, scrittore, insegnante e traduttore nato a Tunisi nel 1934 e rimasto ai margini del mondo del cinema fino al 2008, quando il suo film Lettre à la prison (1969-70) è stato ritrovato, restaurato da Film Flamme e dall’Immagine Ritrovata di Bologna, visto per la prima volta dal pubblico al Festival International du Documentaire di Marsiglia, ivi premiato con la Mention Spéciale du Groupement National des Cinémas de Recherche e definito dalla critica il film “mancante” alla Nouvelle Vague[ii]. Scopo di questo articolo è contribuire alla diffusione dell’opera cinematografica di quest’autore sui generis, ripercorrendo ed aggiornando al cortometraggio Quelques détours (2018), quello che è stato il lavoro di Mila Lazić e Silvia Tarquini, autrici, nel 2012, di un libro esaustivo su di lui: Marc Scialom. Impasse du cinéma, testo a cui hanno preso parte critici come Roberto Silvestri, Marco Bertozzi, Federico Rossin, Saad Chakali e numerosi partner e testimoni dell’avventura del ritrovamento e del restauro[iii].
Nato a Tunisi, si diceva, da una famiglia di origine italiana con il nonno paterno di Livorno, la nonna paterna di provenienza austriaca ma nata a Tunisi, i nonni materni fiorentini, tutti discendenti da ebrei fuggiti dal Portogallo nel ’500 per i motivi ben noti, Marc Scialom passa l’infanzia a Tunisi con i genitori (il padre, prima manovale in un oleificio, diventa poi agente di assicurazioni marittime), i nonni e una bisnonna di Firenze che gli recita Dante in un italiano perfetto, e con una governante sarda. L’italiano, scrive Scialom, è la sua lingua madre anche se poi l’ha in parte perduta, ma in casa si parlavano anche l’arabo e il francese[iv]. Spiega il suo sentirsi apolide, o meglio cosmopolita, il suo essere “un ebreo tunisino di origine italiana, naturalizzato francese”. Le vicende storiche colpiscono a più riprese e in modo paradossale la famiglia Scialom: con l’occupazione tedesca di Tunisi, tra il 1942 e il 1943, gli ebrei sono perseguitati e progressivamente chiusi in un ghetto; anche lì vengono costruiti dei forni crematori, ma la partenza dei tedeschi, cacciati dagli eserciti americano e inglese, fortunatamente ne impedisce l’uso; alla fine del conflitto gli italiani sono visti come fascisti e quelli di origine ebraica osteggiati per i privilegi di cui godevano nell’anteguerra, tanto che il padre di Scialom, pur antifascista e socialista, dopo essere stato rinchiuso per un mese in un campo di concentramento a Gafsa, decide di chiedere per tutta la famiglia la nazionalità francese. Anche quest’ultima però diventa difficile da “indossare”, nel 1956, con l’indipendenza del paese africano. Il giovane Scialom studia alla scuola francese, durante il liceo frequenta il cineclub “Le Paris”, dove è folgorato dai film di Eisenstein e Pudovkin; scrive di cultura per un quotidiano locale, poi si trasferisce in Francia dove si laurea in italiano con una tesi sulla Divina Commedia (è il 1957, l’anno del suo primo film, perduto, En silence) e, dopo la strage di Biserta (1961), decide di rimanervi definitivamente, impiegandosi presso il Ministero dell’Educazione, poi presso l’Institut Pédagogique National e infine lavorando come segretario presso l’Università. Si definisce marxista e agnostico. A Parigi, grazie alla prima moglie, Nedjma Scialom, montatrice, frequenta l’ambiente del cinema. Incontra Chris Marker che lo incoraggia a realizzare il cortometraggio Exils (1966), film oggi ripudiato da Scialom perché “troppo professionale” ma che è stato presentato, sei anni dopo, alla Mostra del Cinema di Venezia, proposto da Enrico Fulchignoni. Del 1969 è La parole perdue, cortometraggio di pittura filmata realizzato con l’amico Ouzani; nello stesso anno Scialom gira tra Tunisi, Marsiglia e Parigi Lettre à la prison. Una volta finito il film, tra molte difficoltà, lo fa vedere a Chris Marker, che non mostra particolare apprezzamento. La delusione è tale che Scialom rinuncia al suo desiderio di fare cinema e si dedica a un percorso in campo letterario, riavvicinandosi alla lingua italiana. Un percorso di scrittura letteraria e critica (poesie, racconti, romanzi, saggi) che lo porterà all’insegnamento universitario (a Saint-Étienne) e alle traduzioni in francese del Decameron, nel 1994 e della Divina Commedia nel 1996, per Le Livre de Poche, e che sta proseguendo intensamente in questi ultimi anni attraverso la collaborazione con Artdigiland, che ha pubblicato il romanzo Les autres étoiles (2015) e i tre racconti Invention du réel. Trois contes (2016), Pourquoi? Conte avec mort inopinée de son auteur (2018) e Dormeur debout. Conte presque révoltant (2020).
Dopo quasi 40 anni dalla realizzazione di Lettre à la prison, il caso vuole che la figlia Chloé, anche lei cineasta, trovi in casa le bobine del film (non i negativi originali, che sono andati in gran parte perduti, ma una copia lavoro in 16mm, in cattivo stato) e, contrariamente all’indicazione paterna che era quella di disfarsene, decida di guardarle: da qui il restauro di cui sopra, la presentazione al Festival International du Documentaire di Marsiglia (2008) e al Festival Mille Occhi di Trieste (2011), l’uscita nelle sale e il successo di critica attuale, che ha fatto ritrovare al regista il suo desiderio di fare cinema: è del 2012 Nuit sur la mer, suo secondo lungometraggio, realizzato all’età di settantotto anni.
Ma soffermiamoci sulle opere cinematografiche.
Il cortometraggio Exils (1966), ispirato alla Divina Commedia, è una sorta di sinfonia per immagini in cui, sullo sfondo sperimentale della musica di Claude Prey, la mdp si muove (con carrelli laterali e verticali e con avvicinamenti e allontanamenti anche improvvisi) su un tessuto di affreschi toscani del Due-Trecento, che raffigurano gli episodi citati (molto Inferno, 10 minuti su 17, soprattutto Francesca da Rimini e Ulisse), narrati in sintesi dalla voce di cinque attori. A partire da una didascalia che parla di un “voyage chez ces exilés absolus que sont les morts”[v], introducendo un tema caro all’autore e presente in tutta la sua opera: “Una caratteristica particolare del poema dantesco è che si tratta di un viaggio nel regno dei morti ma si parla quasi solo della vita. Tutti questi morti guardano verso la vita. In fondo come gli esuli, che nella loro nuova terra rivolgono sempre il pensiero alla terra d’origine. Per questo il film si chiama Exils”, ha dichiarato Scialom[vi]. È il film che l’autore ha ripudiato considerandolo “pomposo”, ma che, collegata al tema dell’esilio, presenta quella discontinuità/frammentazione formale che percorrerà tutta la sua opera e che nella Commedia, secondo lui, si manifesta nella velocità con cui i personaggi si palesano a Dante, per scomparire non appena gli hanno raccontato la loro storia.
Del 1969 è il secondo cortometraggio, La parole perdue, che riprende Exils sia per la presenza di Michel [Mélik] Ouzani, che nell’altro film aveva curato la parte grafica, sia per il procedimento narrativo: la guerra d’Algeria e la strage di Biserta sono infatti raccontate attraverso la pittura e i disegni, eseguiti in simultanea, di Ouzani[vii], pura energia di rosso, nero e bianco, art brut a carattere espressionista e grottesco, intervallata da immagini in bianco e nero di uomini (lavoratori) e di luoghi (desolati), da fotografie e da inserti monocromi, neri, bianchi e rossi, su frammenti di musica sperimentale e su un testo in cui una donna chiede ad un uomo di parlare, di dire, di spiegare… mentre lui sospira, esita, ansima perché non sa dire, o forse non c’è proprio niente da dire quando i civili sono bombardati e massacrati. L’afasia della violenza subita, vissuta sulla propria pelle da Scialom. Nei titoli di testa troviamo: “Michel [Mélik] Ouzani a exécuté, Marc Scialom a visé, Simone Scialom a sabré, Christine Lecouvette a donné le coup de grâce” e Scialom scrive di essere incapace di “tradurre con l’indispensabile umorismo” questi verbi perché “hanno un doppio senso, cinematografico e militare. A exécuté significa ha eseguito i dipinti (nel senso di “ha fatto” ma anche nel senso di “li ha uccisi”, in quanto condannati a morte)”[viii], dichiarazione che sottolinea l’aspetto politico dell’operazione, in cui la volontà di denuncia dell’assurdità della guerra è inserita in un quadro d’arte e di bellezza, sperimentale (Dario Marchiori[ix] ha inserito l’opera nella tradizione del collage nell’animazione sperimentale alla Breer, Vanderbeek, Lenica, Kristl).
Nello stesso anno Scialom gira, tra Tunisi, Marsiglia e Parigi, e l’anno successivo monta, quello che è il suo capolavoro, il già nominato Lettre à la prison. L’avvio è rocambolesco: non c’è un produttore, non ci sono soldi, Marker gli presta una cinepresa con un caricatore a durata limitata e senza il sonoro, che viene registrato successivamente ricostruendo a memoria i dialoghi e pescando pezzi di colonna suono di altri film nel cestino degli studi in cui la moglie lavora, studi di cui la stessa Nedjma gli fornisce le chiavi per andare, nottetempo, a montare il film. Montaggio nel quale Scialom inserisce degli spezzoni di En silence (1957), il suo primissimo film, ora perduto, girato a colori a Djerba: storia di due ragazzi, un tunisino e una francese, che si incontrano, si guardano, e passano alcuni momenti di tenerezza insieme[x]. In Lettre à la prison questa tenerezza manca: il protagonista arriva da Tunisi a Marsiglia con l’intenzione – lo apprendiamo in maniera progressiva nel corso del film – di recarsi a Parigi dal fratello, che è in carcere con l’accusa di aver ucciso una donna francese; a Marsiglia cerca il cugino che dovrebbe indirizzarlo al fratello, senza trovarlo; ma trova dei compatrioti che lo invitano a una festa, e intanto gira per la città, facendo incontri, e la notte sogna o meglio ha degli incubi (un vecchio impazzito in guerra che “ha perso” la testa; la donna uccisa a colpi di piccone e giacente in strada o su un letto; la giacca che cade dall’alto in un deserto e che lui non riesce più ad afferrare), sogni che lo convincono o gli insinuano il dubbio che il fratello sia responsabile del delitto, mentre il finale del film ne svela e afferma l’innocenza in un contesto che lo vuole colpevole o capro espiatorio. In questo purgatorio marsigliese tra il paradiso perduto
tunisino e l’inferno parigino, nel frattempo lui ha perso se stesso, non sa più chi è e si assimila sempre più al fratello “colpevole”, tanto che quando incontra una donna immagina che potrebbe lui stesso ucciderla; e finisce col punire il cane che gli si era affezionato, buttandolo gidianamente giù dal treno. La donna gli dice: “Quando ti vedo, vi vedo tutti”: il razzismo imperante non distingue tra individui e “razza” e porta il protagonista al senso di perdita dell’innocenza e di smarrimento della propria identità personale; quello stesso senso di solitudine che provavano nella realtà l’attore Tahar Aïbi, algerino e musulmano in terra francese, e Scialom stesso, ebreo tunisino e italiano. Particolare è il côté onirico e metaforico dell’opera, dato dagli inserti e dai fotogrammi apparentemente senza senso (la testa di cavallo sulla terrazza, il camaleonte in gabbia che i bambini fanno fumare, la testa di cartapesta nella stanza che richiama quella “persa” in guerra dal vecchio, il montaggio alternato dell’omicidio che, nell’ultima parte, si rivela compiuto da un francese; e, nella prima parte, la prima immaginazione del delitto in un deserto popolato da sei uomini che camminano allineati,
come fossero dei giustizieri in un western buñueliano), dagli stacchi neri, dalle inquadrature e dalle frasi ripetute, dal monologo interiore che è la “lettera” che il protagonista scrive al fratello e che percorre come voce fuori campo tutta l’opera, dalla musica sperimentale che sottolinea alcuni momenti, dai dettagli mostruosi piuttosto che dalle riprese della folla marsigliese nelle strade, che cammina, che chiacchiera, che sta al bar. Scene di vita quotidiana. E volti meravigliosi di persone, persone vere. Pasoliniane. In questo senso, al di là del significato simbolico/metaforico e psicanalitico del film su cui ha ben scritto Saad Chakali (il protagonista come “corpo d’eccezione”; la discontinuità e la frammentazione come cifre stilistiche di un cinema che rimanda a Picasso, Eisenstein e Godard ma anche al disorientamento dell’esule e al senso di invisibilità che prova; l’improvvisazione che è anche quella di chi vaga senza meta, pensoso; l’indistinzione tra realtà e finzione, del film come del protagonista che per “non lasciare tracce” e “non disturbare” attraversa la società marsigliese “come uno spettro”[xi]; la giacca dell’inizio come l’identità e la dignità sociale; la donna bianca, Blanche, come “totem e tabù della società francese”[xii] per il migrante originario della ex colonia; gli animali simbolo delle pulsioni e del destino dell’ex colonizzato; i numerosi simboli fallici e il loro significato), il film è anche un film realistico[xiii], quasi documentaristico nel mostrare la Marsiglia (e la Francia) del tempo, con le vie, il porto, la stazione, i giardini… di giorno e di notte… in un bianco e nero a volte poetico e la macchina da presa che nella prima parte si muove come impazzita, e nella seconda si placa.
Qui il film Lettre à la prison, disponibile su Youtube
Dopo il successo tardivo di Lettre à la prison Scialom si cimenta con un altro progetto cinematografico, Le citronnier, che parte dal racconto di una nipote andata ad abitare in un quartiere arabo di Marsiglia: quando la donna si presenta come ebrea a un negoziante marocchino, lui alza gli occhi dai suoi conti e va ad abbracciarla. Altro protagonista del film è Mohamed Aïssa, attore e aspirante regista impegnato nella lotta dei sans papiers[xiv], con cui Scialom inizia a girare nel giugno del 2010, ma che pochi mesi dopo muore. Nuit sur la mer, del 2012, dunque, diventa l’esito del blocco dovuto alla morte dell’amico e alla conseguente interruzione delle riprese di Le citronnier[xv], che in realtà si vede, a frammenti, sullo schermo del computer del regista: un film nel film. Anzi, l’opera verte su un regista in crisi (Scialom) e sull’opportunità o meno di riprendere il film interrotto, su come (eventualmente) portarlo avanti e, soprattutto, sulla questione del suo significato: ha ancora senso fare un film (come doveva essere quello) sul rapporto tra arabi ed ebrei (a Marsiglia ma anche nel mondo e in particolare nelle zone del conflitto arabo-israeliano) e sui temi della patria e dell’esilio, o non ha piuttosto senso fare un film sulle persone al di là della loro appartenenza, come gli propone un membro della troupe? E “fare a meno di Itaca”, “accettare
l’erranza”, “credere nella mescolanza e nel dialogo, nella metamorfosi continua” accettando “l’impermanenza dolorosa della vita, l’incostanza delle cose”[xvi]? Il finale sembra confermare quest’interpretazione: il mare e la notte del titolo[xvii], le stelle a illuminare i vari Ulisse, i vari esuli del mondo… Perché, come dice un altro membro della troupe, “L’exil, c’est un des plus beaux mots de la langue française, même si c’est un mot très triste”[xviii]. E il film riguarda tutti gli esuli ma anche l’esule Scialom, che in una sequenza commovente va a cercare, con la figlia Chloé, la tomba del padre nel cimitero ebraico di Tunisi e alla fine la trova, per ritrovarsi catapultato in un viale della città su cui vola uno stormo di uccelli, simbolo per lui degli esuli, che lo sovrastano urlanti, e che lui guarda rapito.
L’ultimo lavoro di Scialom, Quelques détours (2018), “Présentation d’un film de long métrage en cours de réalisation”[xix], diretto con la figlia Chloé e con Ouahib Mortada, alterna immagini del primo piano di Scialom che dorme e sogna pronunciando parole incomprensibili, alle immagini dei sogni che fa: uno show all’interno di una discoteca, con un presentatore alla Garrone di Reality che porta sul palco una ragazza disposta a tutto pur di emergere e che sorride trionfante insieme alla madre; il murales di #shippingthefuture e un cantiere del porto di Marsiglia, grattacieli inclusi, e due uomini che si chiedono che senso abbia, se sia questo davvero l’avvenire; immagini tratte dal Trittico del Giardino delle delizie di Bosch, prima dall’Inferno poi dalla parte centrale; un ragazzo braccato da tre militari, uno dei quali alla fine lo lascia andare; l’immagine dello stesso ragazzo che prende una piantina e la porta dietro una tenda bianca per prendersene cura, mentre Scialom sembra guardarlo; e, forse dietro la stessa tenda bianca, due bambini e in particolare una bambina che disegna un uccello nero dalle ali azzurre, una gazza, in francese “pie” e scrive UTO-PIE, “utopia”.
E da qui vogliamo, con Scialom, ripartire e anche concludere, citando le sue parole: “Mi considero sempre più un utopista. Ma l’utopia non è un sogno senza fondamento. Penso che l’utopia contenga una verità che non è ancora concretizzata, ma che è destinata a concretizzarsi. […] Per questo il fatto che oggi appaia impossibile un mondo senza frontiere, in cui tutti saranno cittadini del mondo, non vuol dire che tra quattro o cinque secoli questo non possa realizzarsi”[xx].
[i] In Lazić, Silvia Tarquini (a cura di), Marc Scialom. Impasse du cinéma, Artdigiland, Dublino 2012, p. 211. Dal contributo di Marc Scialom Ricordi, che volete da me?
[ii] “Le film manquant” è il sottotitolo dell’edizione francese del volume sopra citato, curato da Mila Lazić e Silvia Tarquini: Lettre à la prison de Marc Scialom: Le film manquant, Artdigiland, Dublino, 2014.
[iii] «Mila Lazić e Silvia Tarquini riattivano un cristallo di memoria filmica, una perla cinematografica sottratta all’oblio e alla dimenticanza. L’occasione è quella del reinserimento di un film perduto, Lettre à la prison di Marc Scialom, nella storia del cinema. Una operazione fondamentale, in cui le curatrici riescono nell’arte dell’ascolto laddove molte istituzioni latitano» scrive Marco Bertozzi nella prefazione al testo citato, a p. 16.
[iv] Scrive l’autore, a proposito di Loin de Bizerte: «Quel romanzo l’ho scritto con commossa ironia in quel francese storto, una specie di gergo creolo, che nel melting-pot tunisino della mia infanzia sentivo parlare e parlavo anch’io. Oggi non saprei più scrivere né parlare così, perfino l’accento non riesco a ritrovarlo. Le lingue mi attraversano e mi lasciano. La mia lingua materna, quell’italiano che ho parlato con la Nonnina, che ho poi dimenticato, ma che molto più tardi ho saputo insegnare ad alto livello all’università, lo sto perdendo di nuovo e me ne vergogno. Mi pare di possedere quasi perfettamente il francese ma parlandolo e scrivendolo ho talvolta l’impressione strana, affascinante, di tradurre… da quale altra lingua?». Mila Lazić, Silvia Tarquini (a cura di), op. cit., p. 123. Dall’intervista Il “fatale andare” di un ritmo implacabile. Marc Scialom traduttore francese di Dante, a cura di Alessandro Capata.
[v] Che traduco: “viaggio presso quegli esiliati assoluti che sono i morti”.
[vi] Mila Lazić, Silvia Tarquini (a cura di), op. cit., p. 380. Dalla scheda del film Exils.
[vii] “Abbiamo messo fra il soffitto e il pavimento due colonne di legno, tenendo fra esse un foglio di carta trasparente. Lui disegnava e dipingeva dietro il foglio, mentre io tenevo la cinepresa dall’altra parte, filmando così non solo il disegno mentre veniva fatto, ma anche la mano del pittore, proprio come in Le mystère Picasso”, ha dichiarato Scialom. Mila Lazić, Silvia Tarquini (a cura di), op. cit., p. 381. Dalla scheda del film La parole perdue.
[viii] Ibidem
[ix] Dario Marchiori, L’impermanenza del cinema: “Exils” e “La parole perdue”, in Mila Lazić, Silvia Tarquini (a cura di), op. cit., p. 96.
[x] “En silence non è perduto. È integrato in Lettre à la prison. Marc ha “smontato” un film che non amava per integrarlo nella nuova narrazione. Si tratta di un gesto assolutamente moderno. […] Marc parla di quel primo film come di […] un film naïf, innocente, e Lettre à la prison parla della perdita dell’innocenza. In questo senso, ovvero metaforicamente, En silence è il “cinema perduto”, scrive Jean-François Neplaz, in Mila Lazić, Silvia Tarquini (a cura di), op. cit., a p. 379. Dalla scheda del film En silence.
[xi] Saad Chakali, Il contrattempo dell’innocenza, in Mila Lazić, Silvia Tarquini (a cura di), op. cit., p. 235.
[xii] Ivi, p. 242. Chakali conclude tra l’altro il suo saggio in chiave politica, scrivendo, a p. 249, che il film “parla della vergogna e della colpa di essere visibile [del migrante e dell’esule, ndr] come nessun film francese ha mai fatto in modo così originale e sconvolgente”.
[xiii] Scrive Chloé Scialom che vedendo Lettre à la prison ha riscoperto ciò che suo padre non aveva mai smesso di trasmetterle: che “il suo pensiero, anche astratto, trova la sua origine, il suo sapore, nella materialità delle cose concrete”; Chloé Scialom, La materia di cui sono fatti i sogni, in Mila Lazić, Silvia Tarquini (a cura di), op. cit., p. 139.
[xiv] Interessante il fatto che Mohamed Aïssa stesso, alla scadenza del permesso di soggiorno, non l’abbia rinnovato per vivere la condizione delle persone per le quali lottava, con un atteggiamento che Scialom definisce “tra l’anarchico e il cristologico”; per cui non ha potuto trovare casa né godere di mediche, ma è riuscito a viaggiare clandestinamente fino alla morte, dovuta a un aneurisma. Mila Lazić, Silvia Tarquini (a cura di), op. cit., p. 279. Dall’intervista a Marc Scialom Perdita e utopia, a cura di Silvia Tarquini.
[xv] È curioso osservare che Scialom si era trovato in un’impasse simile con Lettre à la prison quando, dopo aver visto il girato, aveva dovuto scartarne un terzo perché sovraesposto e quando, dopo aver visto il primo montato, aveva constatato che non corrispondeva alla seppur scarna sceneggiatura iniziale, e aveva dovuto adattare ai materiali effettivamente presenti la sua idea originaria, come se il film avesse preso vita e si volesse “fare da sé”: “E mi sono detto [è Scialom che parla]: dimentichiamo la sceneggiatura iniziale. Immaginiamo una nuova sceneggiatura che non guidi le riprese, ma ne consegua. Dunque non mi aspettavo più che il mio girato sinistrato si organizzasse in conformità al progetto iniziale. Era l’inverso. Mi aspettavo che questa massa informe di inquadrature mi rivelasse la sua storia nascosta, mi fornisse la sua chiave”. Marc Scialom, Ricordi, che volete da me? in Mila Lazić, Silvia Tarquini (a cura di), op. cit., pp. 177-178.
[xvi] Cfr. Dario Marchiori L’impermanenza del cinema: “Exils” e “La parole perdue”, paragrafo Il lungo cammino verso la riconciliazione: Ulisse, l’apolide che sogna del mare aperto, in Mila Lazić, Silvia Tarquini (a cura di), op. cit., p. 89.
[xvii] Il mare: “uno spazio utopico, l’idea di un mondo senza frontiere”, la notte: “l’incertezza totale, la perdita della memoria” e dell’identità, l’assenza dei punti di riferimento, in una dualità che è tipica dell’opera del regista. Mila Lazić, Silvia Tarquini (a cura di), op. cit., p. 282. Dall’intervista a Marc Scialom Perdita e utopia, a cura di Silvia Tarquini.
[xviii] Traduco: “Esilio è una delle più belle parole della lingua francese, anche se è una parola molto triste”. E ancora, scrive l’autore: “Se la condizione di esule è al principio una lacerazione, può anche, però, costituire una grande ricchezza, perché permette l’apertura a ogni differenza”. Mila Lazić, Silvia Tarquini (a cura di), op. cit., p. 194. Dal contributo di Marc Scialom Ricordi, che volete da me?
[xix] “Presentazione di un lungometraggio in via di realizzazione”.
[xx] Mila Lazić, Silvia Tarquini (a cura di), op. cit., pp. 283 e 285. Dall’intervista a Marc Scialom Perdita e utopia, a cura di Silvia Tarquini.
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