La scuola di Sokurov. Conversazione con Alexander Zolotukhin
Si ringraziano, per la traduzione dal russo all’italiano, Anna Dolgova e Perestroika.it
Alexander Zolotukhin è nato nel 1988 in Ucraina. Quando era bambino la sua famiglia si trasferiva frequentemente; tra i vari luoghi in cui ha vissuto ci sono la Bielorussia, la Russia e le steppe del Kazakistan. Si è laureato al seminario quinquennale di produzione cinematografica di Alexander Sokurov, alla Kabardino-Balkarian University. Nel 2011 ha girato il suo primo cortometraggio, New Promotheus, seguito l'anno dopo da Songs Were Sung Before I Was Born; nel 2016 ha realizzato il suo primo documentario, Esse. Nel 2019, il suo primo lungometraggio, A Russian Youth, è stato presentato in anteprima al Forum of Berlin International Film Festival. Per A Russian Youth la Russian Guild of Film Critics ha assegnato a Zolotukhin il premio per la migliore opera prima, e il film è stato nominato anche per la migliore fotografia.
Qual è il suo background e la sua formazione? Quali sono state le sue prime esperienze cinematografiche?
Mio padre era un pilota militare. Questo ha determinato la vita della nostra famiglia. Insieme ai suoi colleghi è stato spesso trasferito da un posto all'altro e la famiglia lo ha sempre seguito, anche nelle regioni più remote. Da bambino, ho vissuto un po’ in Ucraina, un po’ nelle steppe del Kazakistan e un po’ in Bielorussia. Poi ci siamo trasferiti in Russia, nel Caucaso. L’attività creativa mi piaceva fin dall'infanzia, ma non l'ho mai considerata come una professione possibile, almeno fino ad un certo punto. Negli anni scolastici, frequentando il liceo artistico, ho ricevuto forti stimoli estetici dalla conoscenza della pittura mondiale. Allo stesso tempo mi attiravano anche la tecnologia e l’informatica. Sono andato all'università per diventare programmatore, mi sono immerso nel mondo dei numeri esatti, ma dopo un po’ ho realizzato che di questa professione mi piaceva il processo di creazione. Parallelamente a questo è nato l'interesse per il cinema. Mi sono laureato come programmatore e poi mi sono iscritto al corso di regia cinematografica all'Istituto di Cinema e televisione di San Pietroburgo, con un corso per corrispondenza. Dopo il secondo anno di studio, ho capito che non mi bastavano le conoscenze che mi dava questo tipo di percorso. Proprio in quel momento Aleksandr Sokurov ha aperto il suo laboratorio a Nalchik. Ho mostrato a Sokurov i miei lavori di studio e gli ho chiesto di poter frequentare il suo corso. Ha accettato. Dopo un anno come un uditore mi sono iscritto ufficialmente al suo laboratorio e ho concluso gli studi. A Russian Youth è il mio lungometraggio di esordio. Prima di questo ho realizzato diversi cortometraggi, sempre girati durante la formazione nel laboratorio di Sokurov.
Il montaggio di A Russian Youth stabilisce un collegamento molto particolare e interessante tra la trama principale del film ‒ un giovane soldato cerca di farsi strada nel Fronte Orientale della Prima Guerra Mondiale ‒ e immagini frammentarie di un'orchestra contemporanea che prova due pezzi di Rachmaninov. La colonna sonora in realtà è presente in quasi tutto il film. Come spiega questa scelta?
Il Terzo concerto per pianoforte e orchestra è stato scritto da Rachmaninov alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, ed è una musica molto potente, energica e impetuosa. Non volevamo che la musica romanzasse la guerra, quindi abbiamo enfatizzato l'elemento distruttivo. Negli episodi dei combattimenti sentiamo parallelamente diverse melodie che si sovrappongono l'una all'altra, si battono a vicenda sul ritmo. La musica, appena iniziata, si interrompe improvvisamente. Non c'è armonia nella guerra, la guerra è spaventosa, disgustosa, ripugnante. Ma nella musica di Rachmaninov c'è anche una sottile linea lirica, che appare e poi scompare all’improvviso, come se fosse impegnata dall'assalto di altri frammenti caotici. In questa lotta, credo, si riflette il carattere del protagonista. Il secondo brano presente nel film è Danze sinfoniche. È ancora più vigoroso e potente. Rachmaninov lo scrisse quando era già cominciata la Seconda Guerra Mondiale, e, cosa importante, fu il suo ultimo lavoro. Per noi è stata importante la corrispondenza con gli eventi storici, dopotutto ogni film storico è una conversazione sulla modernità. Come sappiamo, all'inizio del XX secolo c'erano poeti, artisti, musicisti di gran talento che crearono opere meravigliose, poi iniziò la guerra. Alcuni la accolsero con entusiasmo, altri con indignazione, ad ogni modo il destino di un gran numero di persone era segnato. Nel film vediamo giovani musicisti che incanalano tutta la loro passione ed energia nel miglioramento personale e nello sviluppo umanistico. Oggi il mondo è instabile, la situazione politica è turbolenta, ogni giorno arrivano notizie di paesi che mostrano i muscoli. Tutto questo crea molta inquietudine, anche perché prima della Prima Guerra Mondiale nessuno si aspettava che il mondo potesse cambiare in una notte. Il nostro film è un pensiero per quei giovani che suonano la musica di Rachmaninov. Cosa li aspetta, cosa succederà?
Il protagonista Aleksej, interpretato da Vladimir Koroljov, è un personaggio molto stratificato. Mostra l'ingenua determinazione del ragazzo de L’infanzia di Ivan di Tarkovskij, ma ricorda anche il personaggio dell’Idiota di Dostoevskij. Come ha trovato ispirazione per Aleksej?
Il principio che Sokurov ci ha insegnato nelle sue lezioni è che bisogna sempre basarsi sulla tradizione classica: letteratura, pittura, musica. La trama del nostro film è piuttosto classica. È la storia di un giovane piccolo uomo, fisicamente fragile, ma interiormente molto resistente, con un carattere tenace, che è in grado di provare compassione, pietà, amore per il prossimo, e allo stesso tempo si trova di fronte a circostanze molto più forti di lui, come fossero una forza invincibile della natura. Tenta di resistere e il suo carattere si manifesta in questa lotta. Si possono vedere riferimenti ai personaggi di Dostoevskij, Hemingway, Remarque... o a Charlie Chaplin, alla sua immagine del vagabondo. Un’altra fonte d‘ispirazione importante è stato Racconti di Sebastopoli di Tolstoj. E non tanto per i suoi personaggi, ma per l'intonazione con cui Tolstoj parla di ciò che vede. Come descrive un personaggio che arriva in un ospedale militare, dove si trovano i soldati feriti, la presenza di qualcuno che sta morendo. Rivolgendosi al lettore Tolstoj scrive che forse qualcuno potrebbe provare vergogna davanti a queste persone mutilate, ma che non è il sentimento giusto, perché l'unica intonazione con cui si può parlare di loro è il rispetto, la compassione. Lavorando al film abbiamo allora cercato di mostrare i soldati solo attraverso l'intonazione del rispetto, della compassione.
Qual era il suo approccio registico? Quali indicazioni ha dato agli attori e al direttore della fotografia Ayrat Yamilov?
Io e Ayrat Yamilov ci siamo ispirati alla pittura di Levitan, Shishkin, Surikov, Sargent, Petrov-Vodkin, e ai ritratti contadini dell'inizio del XX secolo. Per me era importante capire come gli artisti trasmettessero l'aspetto e il carattere delle persone della loro epoca, attraverso l'immagine statica. Era anche importante per noi ottenere un effetto di distanziamento, in modo che lo spettatore non si sentisse come un partecipante a quegli eventi lontani. Volevamo piuttosto che la parte storica del film fosse percepita come ricordi di quel tempo. Abbiamo cercato di non mostrare tutto, di lasciare qualcosa di non detto. Dunque ci siamo ispirati allo stile delle prime fotografie a colori dell’epoca della Prima Guerra Mondiale; ci piaceva la loro visione offuscata, dovuta al fatto che allora le lenti erano imperfette. Abbiamo trovato questo aspetto molto interessante, anche perché ci ha aperto una larga prospettiva artistica: non solo come stilizzazione, ma anche come uno strumento che può essere utilizzato per ottenere un risultato più intenso. In alcune scene c’è di più del rumore dell'immagine, ci sono graffi o lampi: ad esempio, nella scena dell'attacco con i gas, abbiamo aggiunto la simulazione dei processi ossidativi sulla pellicola. In un certo senso ciò ha permesso di ottenere l'effetto di un documentario, come se un operatore fosse seduto in trincea insieme ai soldati. Sarebbe difficile filmare una persona che ha perso la vista per ustioni sul viso, sarebbe naturalistico in modo ripugnante. La pastosità della pellicola e la sfocatura consentono di ripulire l'immagine e rendere le ferite sul viso del protagonista meno palesi. Durante il montaggio abbiamo lavorato come se si trattasse di cronaca. Ad esempio, quando ci serviva che un’inquadratura fosse più lunga, semplicemente la rallentavamo. Altri fotogrammi potevano essere ripetuti o ingranditi, proprio come si fa quando si lavora con la cronaca. Anche questo serviva a ottenere un effetto di distanziamento, e allo stesso tempo per creare una particolare veridicità nel materiale.
Dopo che Aleksej diventa cieco, lei si concentra sempre di più su elementi uditivi e tattili. È abbastanza raro che un film parli di un protagonista cieco cercando condividere con gli spettatori il suo modo di percepire la vita. Ha avuto alcuni modelli da seguire? La cecità di Aleksej è una sorta di oggettivazione del suo idealismo e dei suoi ingenui sogni di gloria?
In un certo senso, sì. Ma piuttosto direi che è stato importante per me rivelare la forza interiore del protagonista, che in queste circostanze complesse e drammatiche si manifesta. Per il ruolo principale abbiamo visto molti giovani, ma tutti sembravano troppo moderni, alle loro spalle non si sentiva una vita vissuta. Gli adolescenti di quel tempo crescevano presto, la loro vita difficile era visibile nel loro aspetto e nello sguardo maturo. Questa maturità nello sguardo l’ho trovata in Volodja Korolev, il nostro protagonista. Non è un attore professionista. Ha un destino tragico, anche se è un ragazzo aperto, ingenuo e ama a stare con la gente. Per me, come regista, era essenziale aiutare Volodja a dimostrare la sua personalità, il suo temperamento, la plasticità, e fermarli nella pellicola. Ma il compito era complicato dal fatto che, raccontando la storia di una persona che aveva perso la vista, abbiamo privato l’attore di uno degli strumenti più importanti della sua espressività ‒ il suo sguardo. A quel punto con che cosa si poteva esprimere la sua individualità? Ho deciso di lavorare sulla sua plasticità, sull'intensità della voce e la tattilità. Non è un caso che nel film ci siano tante scene che coinvolgono spostamenti, cadute, urti e così via. Tutta questi movimenti hanno messo il suo personaggio in condizione di rivelare la sua plasticità nel modo più dettagliato ed espressivo.
Lei è un discepolo diretto del maestro Aleksandr Sokurov, che è stato anche il produttore creativo del suo film. Quali sono i suoi insegnamenti che porta ancora con lei? Quante volte è entrato nel processo creativo? Le ha fatto visita durante le riprese del film?
Sokurov ha una "filosofia" non comune nell'insegnamento della professione: lo studente conclude il suo laboratorio di regia non dopo aver conseguito il diploma, ma dopo aver creato la sua opera prima. Sokurov, mi sembra, sente la responsabilità di aiutare con la produzione ogni studente che abbia una sceneggiatura pronta. Dopo tutto, il debutto è un’impresa complessa, con grandi responsabilità e molte insidie, e l’esperienza delle riprese di un cortometraggio non basta. Per questo la figura del direttore artistico è molto importante. Senza l'aiuto e il sostegno di Sokurov il nostro film non avrebbe potuto essere girato. Era sempre vicino e partecipe, fin dalla fase di scrittura della sceneggiatura, quindi potevo consultarlo durante la preparazione delle riprese e durante i provini; veniva sul set e ha aiutato nella post-produzione. Sokurov non è solo un regista straordinario ma anche un pedagogo di talento. Non ti offre mai soluzioni pronte, che per il suo livello di maestria sarebbero ovvie, ma ti indica solo la strada, ti dà l'opportunità di riflettere. A lezione ci diceva: «Non cercate mai i motivi nei fenomeni sociali, cercate di guardare nell'anima di una persona e trovate lì il motivo del suo comportamento». Questa è la massima che cerco di seguire. La problematica che mi interessa è il rapporto tra le persone, tutto ciò che si trova nel profondo delle motivazioni sociali.
Oltre a Sokurov, quali erano gli altri modelli di registi e di film che ha tenuto a mente per A Russian Youth?
Durante lo studio nel laboratorio, abbiamo visto molti film classici, ma Sokurov ci insegnava a leggere di più e a guardare meno. Quindi mi ispiravo di più alla tradizione letteraria. Ma non posso non ricordare Ballata di un soldato, L'infanzia di Ivan, Camminava un soldato, Alla guerra come alla guerra. Questi film mi hanno colpito molto, soprattutto per il loro tono rispettoso dell'uomo in guerra e pieno di dignità. Ritengo che sia ingiusto parlare in qualsiasi altro modo di persone che svolgono un lavoro fisico pesante e rischiano continuamente la vita. C'è un film sulla Prima Guerra Mondiale che mi piace molto ‒ Sobborghi di Boris Barnet ‒ in cui il regista ha avuto la forza d’animo di non dipingere tutti gli orrori della guerra, visti e vissuti da lui stesso al fronte, ma di girare piuttosto una storia delicata ed eloquente, in cui c'è un posto anche per l’umorismo. Questo punto di vista lo sento molto vicino.
In A Russian Youth lei racconta una storia ambientata decenni prima della sua nascita. Qui in Italia, per esempio, non abbiamo un ricordo così profondo del nostro passato. Come pensa che i cittadini dell'Europa Orientale siano riusciti a conservare la memoria degli eventi della Prima e della Seconda Guerre Mondiali?
La Prima Guerra Mondiale in Russia è chiamata anche "Guerra dimenticata". Il fatto è che la rivoluzione del 1918 negli scritti degli storici sovietici fu considerata come un evento più importante e drammatico. Solo nell'ultimo decennio l'interesse degli studiosi è tornato su questo tema, anche perché la Prima Guerra Mondiale ha innescato una catena di eventi tragici che ha travolto la Russia e tutta l'Europa. A quella generazione sono toccate in sorte prove difficili: la Prima Guerra Mondiale, la rivoluzione, la Guerra Civile, la fame, le repressioni, la Seconda Guerra Mondiale... Lavorando al film ero interessato a studiare le persone di quel tempo, la loro indole. Ho cercato di rispondere alle domande: "Che tipo di persone erano?", "Come sono riusciti a sopravvivere a tutti questi disastri?", "Cosa avevano nel carattere che ha permesso loro di farlo?». Al centro della mia attenzione erano le persone. La guerra stessa mi interessava perché rivela alcune qualità orribili del carattere umano, ma allo stesso tempo, paradossalmente, rivela anche i sentimenti più puri e caritatevoli, d’amore fraterno e compassione. Se il primo aspetto è stato presentato abbastanza in dettaglio nei film del passato, il secondo invece è passato piuttosto inosservato al cinema. Nel libro di un scrittore di quel tempo ho incontrato una frase che mi ha dato uno degli impulsi più significativi per il film: «Solo una volta ho vissuto il vero amore sincero, nelle trincee sul campo di battaglia».
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